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*DI ALBERTO MARCEDDU
Se una cosa non funziona non è detto che vada cambiata, magari più semplicemente è necessario cambiare il modo di farla. L’errore che in Sardegna si è sempre compiuto è quello di sostituire un modello di sviluppo con un nuovo modello. La verità è che più che un nuovo modello servirebbe un modello nuovo. Possiamo citarne parecchi modelli fallimentari, quasi sempre provenienti dal mare che hanno preso piede sempre grazie alla complicità di una politica regionale miope e suddita.
Di nuovo Settembre, di nuovo Cabudanni. Ma un anno dopo. Un anno dopo nuove chiusure, aspettative, paure e ipotesi di rilancio in cui tanto si è parlato delle opportunità di una giusta ripresa turistica. Si è discusso di rilancio dei piccoli centri, dell’importanza di potenziare la rete dei servizi, di come la Sardegna potesse inserirsi nel tema del southworking.
Tema, questo, che è rimasto per lo più una moda social, pronta a trasformarsi in un fuoco di paglia al ritmo di algoritmi e tendenze anche, però, a causa nostra. Terminato il momento di totale emergenza, quello in cui la corsa verso località dal clima mite, stile di vita slow e tranquillità a un costo della vita inferiore ma senza rinunciare alla potenza di una connessione internet, è terminata anche la necessità (e volontà) di promuovere le nostre realtà come i luoghi ideali dove lavorare a distanza.
E da lì, ci siamo nuovamente adagiati sui canonici tre mesi estivi. Tre mesi che conferiscono il pretesto per attribuire alla Sardegna l'etichetta di destinazione turistica.
L’odore di bruciato. L’odore del terrore, di cenere, della morte. E’ un odore che chi vive in Sardegna conosce molto bene sin da quando ci è nato. Puntuale come un orologio, questo odore della disperazione arriva d’estate, come se ci fossimo abituati a tutto questo. Come se fosse diventato un appuntamento annuale.