Ho sempre immaginato alla vita dei miei nonni come a momenti in cui la casa, il focolare domestico, per dirla come nei libri di letteratura italiana, diventava il centro del mondo. Si usciva, certo, per le faccende quotidiane, per andare in campagna a raccogliere le castagne, per trovare un parente. Ma in una suddivisione ideale dei tempi, le mura domestiche rimanevano un nido caldo dal quale allontanarsi con parsimonia. C’era chi, come nel caso dei pastori transumanti e dei venditori di “truddas e tazzeris” cantati da Montanaru, vi stava lontano per più tempo e son certa che al ritorno il desiderio di risentirne l’odore, di toccarne le pareti e gli oggetti cari fosse così forte da paventarne ogni altro di uscita. E’ facile, leggendo Grazia Deledda, visualizzarle queste case, sentirne rumori e profumi, toccarne le pareti di pietra e legno, scenderne le scale ripide, muoversi nelle corti con giardino, vederne gli abitanti impegnati nella vita di tutti i giorni. Ecco, immaginando la vita in Sardegna 50 anni fa io la vedo così: domestica nel senso di legame con la casa, gli affetti; domestica come unione e, anche, come immaginazione.

E qui, pensiamo ai contos de foghile, i racconti sussurrati davanti al camino nelle lunghe sere invernali dagli anziani della famiglia ai più piccoli ma, anche, alle avventure di chi, di casa, era andato via. Quante volte, mi chiedo, un componente del gruppo avrà detto, spinto dai racconti o dalla noia o dalla rivalsa o altri sentimenti: certo ma quando sarò grande, quando andrò via anche io, quando ne avrò l’occasione farò…

Ed ecco che la casa diventava un microcosmo dove accumulare pensieri da sviluppare, desideri che a volte si trasformavano, nel futuro, in azioni, liste di cose da fare, da vedere, di esperienze da assaporare. Ed ecco noi, oggi, che nel frattempo, abbiamo perso il senso dello stare a casa, ritrovarci forzatamente a riscoprire le nostre mura.

E nello sconforto di una situazione complessa e in un autoisolamento forzato nell’epoca più social – ma anche meno sociale – della nostra storia, tutti noi stiamo riscoprendo il valore delle piccole cose: delle gite fuori porta, dei racconti dei parenti, delle chiacchierate con amici, di una visita a un museo. Come se oggi, tutto d’un tratto, tutto fosse diventato lontano, irraggiungibile e fortemente necessario. Se è vero il detto “S'ainu noneste mai caru finas chi non mancada”, l’asino non è caro finchè non manca, abbiamo deciso di trasformare in scrittura le mancanze di questo momento. Così, i luoghi, le esperienze, le cose spesso rinviate, da fare in Sardegna, troveranno spazio qui per trasformarsi, quando si tornerà alla normalità, in azioni reali.

Tutto quello che faremo, significa recuperare pensieri, far largo a decisioni che si muovono con ritmi diversi. Significa, anche, per noi, raccontare in modo nuovo la nostra terra, guardandola, dalla finestra della nostra casa, con uno sguardo che ci riporta al colle di Leopardiana memoria. Tutto quello che faremo diventa un desiderio da sviluppare che condivideremo con voi nelle prossime settimane. FocuSardegna diventa ancor più, in questa occasione, uno spazio aperto alla condivisione e al dialogo. Diventa, da oggi, la nostra casa, il nostro camino intorno al quale raccontare i noi del domani.

Per farlo, mi piace ricordare una delle opere più poetiche di Maria Lai, “Legarsi alla montagna”. Realizzata l’8 settembre 1981 e caduta nel dimenticatoio perché scambiata per festa folcloristica e non per una performance artistica, Legarsi alla montagna andava a ragionare sull’unione della comunità recuperando una leggenda di Ulassai relativa a un fatto accaduto a fine Ottocento, il crollo di un costone della montagna travolse un’abitazione causando la morte di tre delle quattro bambine presenti in casa: la sopravvissuta rimase con un nastro celeste in mano, dando vita alla leggenda che la vedeva inseguire un filo azzurro che volava in cielo salvandosi così poco prima del crollo. Maria Lai chiese alle persone del luogo di legare tra loro le case e le legò poi, a loro volta, alla montagna che domina il piccolo paese ogliastrino. Quei nastri che, come diceva l’artista “sono il simbolo dell'arte, sono leggeri, effimeri, sono appena di un colore, non servono a nulla” diventavano occasione per superare i conflitti tra abitanti, per rinnovare l’unione, il senso di comunità.

Parafrasando l’opera di Maria Lai, quanto è presente, oggi, quel filo che lega tutti noi alla nostra terra, ai nostri spazi e a quello che faremo? Ecco che allora ogni ricordo, ogni articolo pubblicato, sarà il nostro nastro azzurro per rinnovare, il rapporto con un territorio unico al mondo, con le sue tradizioni, le sue memorie, i suoi spazi.

Questo piccolo Decamerone del nostro tempo, sarà tutto quello che faremo, certi che #andratuttobene.

 

Ps: Foto scattata due estati fa nel villaggio di San Salvatore, uno dei luoghi che racconteremo su queste pagine 

 

Vuoi partecipare al contest "Tutto quello che faremo" con un tuo scritto? Inviacelo insieme a titolo e foto a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. 

Autore dell'articolo
Mariella Cortes
Author: Mariella Cortes
Curiosa per natura, alla perenne ricerca di luoghi da scoprire, persone da raccontare e storie da ritrovare. Giornalista dal 2004 per carta, televisione, radio e web, lavoro a Milano come formatrice per aziende e professionisti e come consulente di marketing e comunicazione. FocuSardegna è il filo rosso che mi lega alle mie radici, alla mia terra che, anche nei suoi silenzi, ha sempre qualcosa da dire. Mi trovi anche su: www.mariellacortes.com
Dello stesso autore: