Ero tornata. Per la prima volta, dopo tanto, troppo tempo.

Nella tempesta delle emozioni, niente rimandava ai pensieri che avevano affollato la mia mente.

Giusto le persiane, in un patto non scritto, confermavano un sofferto ritorno. 

Sprangate, mal celavano il senso di triste abbandono unito al mio remoto desiderio di lasciare tutto così, immobile nello spirito del tempo di paese che ha una sua clessidra, ben diversa da quella che io, in città, avevo ruotato innumerevoli volte in quei lunghissimi anni.

Credo che quando le imposte furono chiuse per l’ultima volta, insieme a Nonna e al suo cuore affranto svanirono anche le poche cose rimaste di me e della mia breve vita qui: il rosario in filigrana d’argento, regalo per la Comunione, la spilla con la M intrecciata, per la Cresima, e quell’anello tanto sottile che pareva rompersi anche solo a guardarlo. Era il regalo di fidanzamento di babbo a mamma, raccontava Nonna.

Feci un ampio respiro e lasciai che la chiave di metallo girasse rumorosamente per tre volte.

Il legno del portone non era più del verde brillante che catturava la mia attenzione di bambina, e un odore di polvere mi fece tossire più del dovuto.

Ci sarebbe stato parecchio da fare.

Ma prima, la lettera.

Era la ragione per cui ero qui. Se non mi avessero riferito di quel pezzo di carta, avrei rimandato il momento del ritorno. O, forse, non l’avrei proprio programmato.

Lo dovevo a Nonna. L’unica a darmi la benedizione quando me ne andai.

Riconobbi subito la sua scrittura. Le lettere ben distanziate, vergate con mano tremante e insicura, riportavano chiaramente il mio nome. La busta era sigillata da diversi strati di colla e, appena la presi in mano, vibrò come se contenesse qualcosa.

La aprii e riversai il contenuto sul tavolo, sentendo traballare il piccolo cassetto incastrato tra le gambe. Proprio come lo ricordavo.

Il possente banco in legno di castagno era lo spazio del tutto: dolci e pane, litigi, promesse e decisioni. Quando ci poggiai le mani per l’ultima volta, prima di partire, quattro dei cinque sguardi mi restituirono solo odio. Uno solo, speranza.

E i tempi non erano cambiati. Il tono di chi mi disse della lettera attendeva, come risposta, un rifiuto.

“Se tornerai, non credere che ci sarà chissà quale gratitudine”.

Non poteva sapere che nelle righe che mi erano state lasciate c’era, invece, tutta la gratitudine del mondo. Un foglietto, ripiegato più volte, conteneva una preghiera antica.

La ricordavo bene: mi era rimasta impressa sin dalla notte in cui Nonna la recitò, davanti a grossi tizzoni che custodivano un cuore caldo e restituivano cenere.  

E ogni notte, dal momento della partenza, rinnovava il rito, sperando che la mia vita stesse diventando quella che lei non aveva mai avuto: un’esistenza libera, ricca di scelte.

Né il marito, né la casa, né i frutti da raccogliere, i piatti da cucinare, le amicizie o i nomi dei figli. Niente di tutto questo le era mai stato concesso. E anche alla morte del marito, nell’esatto istante in cui pensava di poter respirare un’aria nuova, non fece nemmeno in tempo ad aprire l’armadio e tirar fuori quel completo che sfiorò il suo corpo solo una volta, nella boutique, che le vide arrivare. Nascose la raffinata scatola azzurra sotto il letto e corse in cucina, allacciandosi un grembiule ai fianchi sottili e fingendo di esser impegnata a far qualcosa.

Le voci sgraziate delle vicine si facevano sempre più prossime, insieme al rumore di mestoli e latta.

“Tira fuori tutto, dobbiamo fare il colore!”.

Pensava che, essendo passati diversi mesi dal funerale, quel lugubre rituale non l’avrebbe riguardata.

“L’acqua, veloce! Mettila a bollire!”.

Le mani rugose sbriciolavano semi e spargevano polveri.

“Il sale, dov’è? Guarda che altrimenti non attacca!”.

Anche in quel momento non disse nulla.

Uno dopo l’altro, i suoi vestiti finirono nel calderone della mestizia che li tinse dello stesso colore dell’animo di quelle donne, giunte più per compiacimento che per pietà.  

Riuscì a salvare solo il completo di taffetà. Dentro la scatola c’era ancora il certificato di garanzia. Ho conservato tutto e, ogni volta che lo indosso per andare a teatro, lo faccio per lei. Chissà se, rimirandosi nello specchio della boutique di città, era riuscita a immaginarsi tra poltroncine e amiche eleganti.

Oltre al foglietto, c’era un bel foglio di carta da lettera. Le parole si alternavano leggere dentro la cornice dorata, tra gigli e petali di rosa.

Lo conoscevo: ero stata io a mandarlo, insieme alla busta e al francobollo, chiedendole di usarlo come risposta all’unica lettera che le inviai.

Nonna l’aveva custodito per potermi rispondere nel giusto tempo, ma la sua clessidra non era la mia.

Quando lo sconforto dell’attesa mi fece cancellare anche quell’unico sguardo di speranza, non potevo saperlo.

Io non le scrissi più. Lei, invece, sì, prima di morire. Una sola lettera, la più preziosa.

Il racconto degli anni che seguirono al mio addio dava conferma ai miei pensieri.

La sua esistenza era rimasta la stessa: una gentile sottomissione a regole che non comprendeva, ma che col tempo era riuscita ad accettare, proiettando su di me i suoi ingenui ideali di libertà.

Quello che mi raccontava con un fervore che non le avrei mai attribuito, però, era sorprendente.

Accadde per il matrimonio dell’altra nipote che, a mia differenza, era rimasta e aveva fatto esattamente quello che la famiglia si aspettava da lei. Per questa ragione, ogni suo desiderio era legge.

“Il nocciolo non mi fa vedere bene il campanile della chiesa. In fondo, a che ci serve? Da anni non le fa nemmeno più, le nocciole”.

Era così. Ombra sì, tanta. E un rassicurante senso di protezione che Nonna ci trovava sempre in quell’albero senza frutti ma, nella sua mente, custode di un senso del Divino che trascendeva le umane necessità.

Ci si aggrappò con forza, usando il suo corpo come scudo, corazza, difesa.

Mai avrei immaginato una tale forza, una così forte ribellione.

Provò a difenderlo per giorni. 

Senza riuscirci.

“Niente durerà in questa casa finché quell’albero starà in giardino”.

Il giorno del taglio coincise con la grande festa di fidanzamento.

Nonna preparò pane e dolci senza uscire di casa, e nessuno chiese di lei.

Fu allora che scrisse la lettera, tirando fuori dal cassetto le timide nocciole che si stavano facendo spazio tra le fronde e che era riuscita a conservare, provando a piantarne qualcuna, senza successo. Le altre erano i semi che facevano vibrare la busta. Erano lì, per me.

E chiedevano di mantenere una promessa.

 

Ma la verità è che non ero tornata. 

Mentre guardavo la città brillare di mille luci gelide, di fiocchi dorati e pacchi regalo, immaginavo come sarebbe stato.

Nello stesso istante la luna illuminava la stanza vuota di Nonna, posandosi sulle superfici polverose, filtrando da persiane ormai consumate dal tempo.    

Il calamaio era al suo posto, la busta, sigillata, posata sul tavolo di legno, sovrastato dall’immagine della Santissima Trinità.

Nel giardino, intanto, radici forti si facevano strada, incuranti delle clessidre e delle umane promesse.  

 

 

Autore dell'articolo
Mariella Cortes
Author: Mariella Cortes
Curiosa per natura, alla perenne ricerca di luoghi da scoprire, persone da raccontare e storie da ritrovare. Giornalista dal 2004 per carta, televisione, radio e web, lavoro a Milano come formatrice per aziende e professionisti e come consulente di marketing e comunicazione. FocuSardegna è il filo rosso che mi lega alle mie radici, alla mia terra che, anche nei suoi silenzi, ha sempre qualcosa da dire. Mi trovi anche su: www.mariellacortes.com
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