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Lo chiamano “caviale del Mediterraneo”, un nome ricco per un prodotto dalle origini povere. Un tempo era uno scarto commestibile, un condimento umile utilizzato dai parsimoniosi pescatori scalzi di Cabras, saggi intenditori, e molto prima di loro dai fenici, che ne iniziarono il traffico, proseguito poi dai cartaginesi. Lo conoscevano anche gli egiziani e i romani, questi ultimi da sempre ingordi di ghiottonerie.
In Sardegna, trovare indigeni che non si nutrano di carne è impresa ardua. Non più impossibile, certo. Qualche decennio di civilizzazione ha portato scempi come strade asfaltate, villette a schiera e integerrimi vegetariani. Ma la mia memoria non cancellerà mail il detto: “Di tutti i legumi, quello che preferisco è la salsiccia”. Ho provato a scoprirne la provenienza. Ho provate a trovarne traccia in altre culture gastronomiche. Nella grassa Emilia Romagna, per esempio, dove il maiale regna sovrano. Ma niente. Questo modo di dire non l’ho mai sentito uscire dalla bocca di qualcuno che non fosse sardo. Lo usano i vecchi, soprattutto.
A prima vista sembra brutto e cattivo, con tutte quelle spine sottili e fastidiose che non incoraggiano di certo ad avvicinarsi. Invece ha un cuore saporito e benefico. I vecchi dicono che la sua polpa, messa su una ferita, dà sollievo e favorisce la cicatrizzazione. I medici dicono che ha proprietà antiossidanti. Mentre chi ha alzato un po’ troppo il gomito può curarsi l’intossicazione alcolica ingerendone qualche etto. Insomma, su figu morisca (il fico d’India), ricco di vitamine, scoppia di salute e, a mangiarlo, ne trarrete beneficio anche voi.