Vice Direttore Generale in seno alla Direzione Informazione del Gruppo Mediaset, Andrea Delogu, nato a Sassari nel 1960, muove i primi passi nel mondo della comunicazione prima nella radiofonia e poi come collaboratore de La Nuova Sardegna. Laureato in Giurisprudenza (Sassari, 1984), Scienze Politiche (Sassari, 1988) e Filosofia (Milano 2007), è inoltre specializzato in Economia Aziendale presso l’Istituto Adriano Olivetti (ISTAO) di Ancona nel 1984. Ha lavorato nella Direzione Personale del Gruppo Olivetti e si è occupato di gestione delle risorse umane e relazioni sindacali in Mondadori. Dal 1992 lavora per Mediaset: Dirigente dal 1997, nell’azienda televisiva del Gruppo Fininvest ha svolto diversi ruoli manageriali e produttivi. Con lui affronteremo le tematiche relative al superamento della crisi in Sardegna, parleremo di distretti culturali, leadership e prospettive di sviluppo locale.

Partiamo: 

Dottor Delogu, il Suo background professionale è molto fitto e complesso. Vogliamo ripercorrerne le principali tappe?

Ho iniziato abbastanza presto ad occuparmi di comunicazione, precisamente nel 1977 quando feci la prima esperienza radiofonica insieme ai “compagni” della Federazione Giovanile Comunista Italiana. La nostra radio si chiamava “Studio Novecento”, avevamo comprato un trasmettitore dismesso da una centrale militare, posizionandolo in via Monte Grappa, dove avevamo la sede; grazie alla collocazione, abbastanza in alto, riuscivamo a far arrivare il segnale in tutta Sassari. All’epoca facevo un po’ di tutto, dal dj al giornalista, fino al tecnico del suono. Si trattò della mia prima esperienza del campo della comunicazione, durata un anno e mezzo; avevo 17 anni, frequentavo il liceo classico all’Azuni. Nell’81 venni ingaggiato come collaboratore a La Nuova Sardegna occupandomi, in un primo momento, di sport. All’epoca la Nuova fu acquisita dal gruppo editoriale “L’Espresso” e il mio segretario di Federazione, Vindice Lecis, assunto dalla testata, trascinò alcuni di noi all’interno della redazione sportiva.  Nel 1984 mi laureai in Giurisprudenza e lasciai la Nuova. Il caso però volle che non mi potei laureare subito per ragioni burocratiche e, nei tre mesi di “stallo” iniziai a sostenere alcuni esami di Scienze Politiche: non mi piaceva perdere tempo. Dopo la laurea in Scienze Politiche ho studiato all’Istituto Adriano Olivetti ad Ancona e poi iniziato a fare un po’ il consulente e il ricercatore (a Roma, a Milano, in Puglia, in Scozia) fino ad arrivare, nel 1986 in Olivetti a Ivrea e da lì in Mondadori a Segrate, Sandoz (multinazionale farmaceutica, tra Milano e Basilea) e dal 1992 in Mediaset, dove tutt’ora lavoro. Ero disponibile a muovermi in tutta Italia ed Europa, è stata questa la ricetta vincente: per poter lavorare dovevi essere disponibile, esattamente come adesso! Anche all’epoca c’era la crisi e, a dire il vero, non ricordo una stagione in cui non ci sia stata la crisi: fa parte dell’evoluzione e va specificato che alle crisi si può rispondere con comportamenti che inducono depressione e demotivazione e reazioni che, invece, sviluppano la creatività.

La spirale della crisi che attanaglia il mondo dal 2008 sembra, oggi, non allentarsi. Vede per la Sardegna - sicuramente molto colpita – dei possibili miglioramenti in corso d’opera o da farsi? Secondo Einstein è proprio nei momenti di crisi che si sviluppa la creatività: è un discorso valido per la nostra Isola?

Nei primi anni del Duemila, con il trionfo della New Economy, attraversavamo un periodo di grande crescita. Quanto dicevo prima, sui vari modi di reagire alla crisi, vale in particolar modo per la Sardegna: c’è un modo sano che consiste nel darsi da fare, nel rimboccarsi le maniche e uno malato che consiste nel piangersi addosso, attribuendo responsabilità e colpe agli altri. Il secondo punto, purtroppo, è tipicamente sardo. Nell’isola la crisi, iniziata nel 2008 come crisi finanziaria negli USA, è arrivata intorno al 2011. Causa il fatto che in Sardegna, non essendoci impresa privata ma principalmente iniziative basate sul pubblico, con il taglio dei finanziamenti statali, si è bloccato il mondo degli appalti, dipendenti dalla sanità, dalle università e dagli enti pubblici. C’è, inoltre, una crisi di liquidità: molti continuano a lavorare ma non pagano le maestranze; molti altri, invece, hanno preferito fallire piuttosto che rischiare ed i pochi che sono riusciti a stare sul mercato hanno dovuto ridurre di parecchio la manodopera. Chi sopravvive continuando a rischiare, presidiando la sua quota di mercato, è bene dirlo, quando la crisi si affievolirà, sarà favorito perché non dovrà ricreare un’impresa da zero, avrà mantenuto il know how e potrà più agevolmente reingaggiare quegli artigiani, tecnici e professinisti che nel frattempo non potevano essere retribuiti. A proposito della crisi che sviluppa la creatività, riporto un indicatore interessante, in questo caso di Sassari. Solitamente negli anni scorsi, ad agosto tutti i locali e negozi erano chiusi perché si “stressava” la necessità di fare le ferie, come i clienti; necessità giustissima se non fosse che i potenziali clienti comprano quando hanno il tempo libero e, quindi, durante le vacanze. Quest’anno, invece, vedo molti più negozi e ristoranti aperti e molte più persone per le strade. Sarà l’effetto della crisi ma è chiaro che le persone escono di casa se i locali sono aperti. Uscire di casa o visitare una città e trovare tutto chiuso, da un senso di povertà e trasforma i luoghi (in particolar modo i centri storici abbandonati) in non luoghi.

Crisi come possibilità di cambiamento, insomma. Sempre in riferimento alla Sardegna, una maggiore attenzione verso la qualità e un aumento delle esportazioni, potrebbero rappresentare una chiave di svolta?

La crisi induce il cambiamento nel senso che chi ha delle idee nuove, proprio nei momenti di crisi gioca le sue carte mentre chi ha idee vecchie è costretto a chiudere. In questo momento il cliente è più intelligente: non spende soltanto cercando il prezzo più basso ma secondo un principio di qualità/prezzo. Leggevo recentemente che la Sardegna ha aumentato le sue esportazioni all’estero del 21%: questo significa che se vuoi rispondere alla crisi devi cercare di vendere dove ci sono i potenziali clienti. Certo, se ci fosse più capacità di consorziarsi ci si metterebbe insieme e si riuscirebbe a vendere ancora di più all’estero: cento piccoli produttori che vendono da soli rimangono tali mentre cento piccoli che si uniscono diventano una straordinaria occasione anche per abbattere i costi di distribuzione, aumentando, conseguentemente, la competitività delle vendite all’estero.

Questo è uno dei grandi problemi della Sardegna. Come spiega questa riluttanza dei produttori a volersi mettere in rete?

Non riescono perché non vogliono: non c’è una legge che impedisca di mettersi insieme! Parlavo di consorzi ma potrebbe trattarsi anche di un’associazione temporanea di imprese o di un’unione non classificata come tale (noleggiamo  un camion e dividiamo le spese a metà, per intenderci) Non occorre necessariamente un atto legale. Dovremmo prendere esempio dalla grande distribuzione francese: Carrefour e Auchan, pur essendo competitors, fanno arrivare insieme le merci in Italia e poi si fanno concorrenza su prezzo e qualità, risparmiando sui trasporti perché in Italia le merci arrivano con gli stessi mezzi. I produttori di generi alimentari sardi che vogliono esportare all’estero, non possono pensare di far arrivare ogni prodotto con un trasporto ad hoc. La verità è che in Sardegna si coltiva l’humus di un principio antieconomico per cui piuttosto che far “arricchire” un competitor, si è disposti a guadagnare di meno. È il principio del “thatharesu impiccababbu” che diventa un principio generale, quasi astratto. La crisi, invece, costringe a mettersi insieme e, se ancora non si avverte questa necessità, evidentemente gli effetti della crisi non hanno ancora morso a dovere.
Bisognerebbe capire che la vera innovazione non è solo di prodotto ma anche di processo ed entrare nella logica che i competitors rappresentano i principali alleati perché fanno distretto. In Italia abbiamo inventato i distretti industriali, penso a quelli della costa adriatica, studiati dagli economisti di tutto il mondo, ma in Sardegna non abbiamo ancora capito che questa caratteristica ed indole potrebbe essere una molla economica anche per noi isolani.

Negli ultimi mesi il discorso sui distretti culturali si sta facendo più pressante. La loro creazione potrebbe aiutare quell’innovazione di prodotto di cui parlava e, al contempo, rappresentare un organismo di controllo della qualità e dell’autenticità? 

Il  distretto culturale è tanto più importante in Sardegna perché il cibo, ad esempio, è figlio della cultura. Anzi, il cibo è collegato alla tradizione, che non è solo il folcklore che si manifesta durante le sagre e feste del prodotto (che sono ugualmente  importanti). Quando si parla di cultura si parla di quell’insieme di permanenze e oggettività che esistono anche quando non ci sono le sagre! La bellezza dei luoghi si apprezza maggiormente quando non ci sono le feste paesane, giacché è in quei momenti che i turisti ed i cittadini riescono a trovare, anche fuori stagione, una cultura locale a disposizione. Organizzare una festa paesana ad agosto non rientra nelle logiche del distretto culturale, è come il negozio che apre una volta l’anno e nei restanti mesi c’è il deserto! La cultura deve essere di tutti. Si parla di distretto proprio perchè c’è una diffusione a rete: ogni operatore è specializzato nel suo settore e ogni produttore entra in relazione con l’altro non per un giorno ma tutto l’anno.

La creazione dei distretti culturali e la messa in rete del sapere, congiuntamente ad una maggiore collaborazione tra produttori, riuscirebbe a sfatare la convinzione che investire in Sardegna sia anti-capitalistico?

In Sardegna vige un’economia di sussistenza. Cito, a mò di esempio, una mia esperienza personale ad Alghero. Ero al mare e volevo comprare dei biscotti artigianali; decisi di aspettare il pomeriggio, per evitare di lasciarli tutto il giorno esposti al caldo della macchina. Alla mia richiesta, la gerente della pasticceria rispose che aveva terminato tutti i biscotti nel corso della mattinata e non li rifaceva perché, in tal caso, sarebbe stata costretta ad assumere una persona, anche se questo avrebbe significato guadagnare di più. Questo aneddoto spiega tante cose. Qui ci si accontenta dell’economia della sussistenza: significa guadagnare quanto basta per campare e se per caso succede di avere un minimo di accumulazione, non dico in senso capitalistico ma come minimo risparmio che potrebbe somigliare ad un profitto, guai pensare di investire perché ciò significherebbe assumere un altro artigiano! Ma anche i media locali inducono modelli discutibili. Un mesetto fa, su La Nuova Sardegna si faceva riferimento ad  un eccellente imprenditore genovese che ha acquisito il marchio Manzotin e, visto che già produce il tonno “As do mar” in uno stabilimento di Olbia, pare che sia prossima l’implementazione di una nuova linea per produrre anche la carne in scatola. Il giornalista, dipingendo la figura di questo imprenditore, lo  definiva “anticapitalista” perché aveva deciso di investire in Sardegna pur con costi più alti rispetto ad altre location estere. In realtà stiamo parlando di un imprenditore molto capitalista, che evidentemente ha trovato economie di scala per produrre qui in Sardegna: in primis perché farà sinergia con lo stabilimento che produce il tonno: sinergie non solo logistiche, immagino ma anche relative alla qualità delle risorse umane che ha trovato sul territorio olbiese. Se però un giornalista sardo considera l’investimento in Sardegna anticapitalistico, la vedo dura per chi ha voglia di intraprendere!  In Sardegna si sostiene in maniera subliminale, quasi inconscia, che gli imprenditori che fanno i soldi sono degli “arricchiti”. Ma la molla di qualsiasi imprenditore al mondo è generare profitti che possono poi essere reinvestiti in vari modi come, per esempio, attraverso un investimento nel sociale e nella cultura. Però questo, ancora, in Sardegna sembra non essere chiaro.

Qui entra in gioco anche un discorso relativo alla leadership. Ci sono in tal senso delle buone pratiche  in Sardegna?  

In Sardegna ci sono stati degli imprenditori che possiamo definire dei leader: pensiamo a Grauso, Soru, Onorato. Negli anni novanta a Sassari avevo creato, insieme ad altri soci, una rivista che si chiamava “Intraprendere. Iniziative di successo” dove ogni mese raccontavamo la storia di un imprenditore che aveva sviluppato la sua leadership. Abbiamo iniziato con Pani, il famoso creatore delle omonime autolinee Gran Turismo, per poi raccontare, tra i tanti, la storia di Ugo Multineddu e dei Multimarkets: la saga di quest’ultimo è molto emblematica per la successiva scelta di vendere a Conad, continuando a garantire la distribuzione di qualità all’interno del centro città e mantenendo decine di posti di lavoro, anche nell’indotto dei fornitori locali. Non è vero quindi che non ci sono dei leader, ma probabilmente non sono stati messi in condizione di sviluppare una generazione di imprenditori dietro di loro. Pensiamo poi che sia Grauso che Soru si sono avvalsi della presenza del CRS4 a Cagliari e la stessa “Video on line” è nata grazie a quella esperienza. Cagliari è stata un polo di attrazione di grandi intelligenze e non ho alcun dubbio nell’affermare che la Sardegna ha in sé tutte le caratteristiche della California: sole, mare, buone università, giovani disposti a studiare - e  non si tratta di una cosa scontata – ed enormi spazi dove sviluppare dei poli innovativi. Il nostro valore aggiunto, a differenza della California, sta nell’essere al centro della cultura mediterranea; purtroppo però la Sardegna non è al centro dell’innovazione tecnologica e culturale, e la tradizione viene sventolata per difendere la sardità e, paradossalmente, indurre maggiore chiusura. Qual è il modo migliore per sviluppare questa grande tradizione e favorire l’apertura verso il resto del mondo?  Incubando tecnologia, facendo arrivare giovani studenti da tutto il mondo e convincendoli a rimanere qui per studiare e lavorare utilizzando le ricchezze della tradizione. E non parlo solamente del mare e della natura. La California è una terra straordinariamente bella ma non ha le tradizioni antiche della vecchia Europa e della Sardegna. Il punto è che, per esempio, in questo momento la preoccupazione maggiore, nel mondo universitario sassarese, sembra quella di dove andare a costruire la nuova casa dello studente, se dentro o fuori le mura la città. È un paradosso. Dovremmo preoccuparci di dove andranno a lavorare gli studenti in futuro, non di dove vanno a dormire oggi.

In ambito universitario, in che modo vede, parlando di studenti e neolaureati, la situazione degli stage? Quanto, effettivamente, possono essere d’aiuto nell’inserimento nel contesto lavorativo?

Fino a qualche tempo fa gli stage non erano regolati ed erano gratuiti, una sorta di lavoro nero. Oggi invece, sono controllati e retribuiti - anche se poco- e questa è già una prima conquista. Personalmente, ritengo che, in particolar modo in Sardegna, lo stage dovrebbe essere inserito in un progetto di contratto e, per i giovani fino ai 35 anni, si dovrebbe pensare ad un unico contratto a tempo indeterminato dove lo stage rappresenta la prima soglia d’accesso.  La Sardegna potrebbe essere una terra in cui si sperimentano nuovi contratti e, in quanto Regione a Statuto Speciale, lo si potrebbe fare in accordo con tutte le parti sociali. E’ evidente che prima ci dovrebbe essere la pace sociale, o quantomeno una tregua, anche in termini di accordo tra i diversi partiti politici. Bisognerebbe sviluppare la capacità di far business per poter ottenere dei cofinanziamenti dall’Unione Europea. In Sardegna manca la capacità progettuale, ovvero il riuscire a generare business avendo poi la medesima capacità di attrarre finanziamenti e lavorare a progetti seri legati a imprenditori, non a politici che nel frattempo non vengono rieletti. Una delle caratteristiche che si osservano è che qui fare politica è considerata una forma di impresa: investo per essere eletto e devo mantenere la mia clientela. Questa non è impresa ma totale assenza di idealità, totale assenza di progettualità, anche politica. La Sardegna ha generato nel corso del Novecento dei personaggi di alto livello che hanno fatto politica in maniera straordinaria in tutta Italia, non solamente in Sardegna; parliamo di una decina di persone, non solo di Berlinguer e Segni e anche oggi abbiamo dei politici di notevole statura. La verità è che in Sardegna la politica è spaccata e frammentata, in primis per ragioni geografiche che fanno in modo che un politico di Cagliari non venga considerato un  politico sardo da uno di Sassari e viceversa.  Questo è il vero paradosso. La Sardegna è un isola che ha delle fratture geografiche, culturali e poi anche politiche.

La Sardegna come Regione a Statuto Speciale potrebbe avere una serie di agevolazioni. Mi viene in mente il dibattuto discorso della zona franca. Quali tipologie di benefici porterebbe, a suo parere, la sua istituzione nell’Isola?

Nessuna zona franca al mondo ha sviluppato di per sé attività imprenditoriali. Pensiamo a Cipro, per esempio: non sono arrivate imprese ma ci sono state numerose banche che hanno aperto sportelli per attrarre capitali ma, come noto alle cronache, l’isola rischiava comunque la bancarotta. Come può uno Stato rischiare la bancarotta se è pieno di soldi? Semplicemente perché la massa monetaria non viene investita in quel luogo.  Le zone franche non sono a priori un’occasione di sviluppo ma funzionano se ci sono delle imprese che producono. Gli imprenditori non investono nelle zone franche ma dove – come nel caso dell’imprenditore genovese – ci sono occasioni per produrre utilizzando sinergie, economie di scala, maestranze di lavoratori bravi e capaci. La zona franca ha senso nel momento in cui viene creato un distretto industriale e culturale e a questo punto si ha bisogno, oltre che di avere imprenditori e aziende, anche di attrarre capitale finanziario. La zona franca può essere un’occasione di attrazione di investitori che inizialmente vengono a depositare i soldi e pagano meno tasse – andando a risparmiare - ma che poi sono anche interessati a moltiplicare quel capitale nello stesso distretto.

Apriamo una finestra sulla comunicazione: come sta cambiando la figura del giornalista e in che modo questa, nell’epoca dei social network, può avere un valore aggiunto?

Innanzitutto in Italia c’è un ordine professionale e quindi il giornalista diventa tale solo se ci sono altri giornalisti che glielo consentono. Il giornalista è tale se si pone come mediatore tra la realtà, i fatti e il pubblico che legge, ascolta o  guarda. Fare il mediatore significa garantire che l’ informazione riportata è corretta in quanto verificata e ponderata. Prima di pubblicare una notizia che può ferire una persona, un nucleo familiare o una comunità, questa non solo va verificata ma è necessario dare voce anche ai diretti interessati; in caso contrario anche un giornalista diventa opinionista, partigiano. Va detto che molto spesso i blogger riescono a raccontare i fatti meglio dei giornalisti professionisti perché vivono immersi nella società; i giornalisti, invece, magari stanno solo in redazione e si cibano di agenzie, veline o notizie che leggono attraverso i blog.  Infine, anche se sembra una banalità, un giornalista è tale se ha un editore che lo remunera per la sua attività “originale”.  

Il discorso relativo al valore aggiunto del giornalista vale tanto più in Sardegna dove si registra un tasso di lettura superiore ad altre regioni e si vanta la presenza di due grandi quotidiani  (La Nuova Sardegna e L’Unione Sarda) e un’ottima redazione regionale della Rai; senza dimenticare l’eccellenza di Videolina, una delle più belle realtà di emittenza locale in Italia, grazie anche all’organizzazione dettata dal suo editore Zuncheddu.

Dottor Delogu, lei ha un forte legame con la Sardegna, quasi come se l’avesse mai lasciata. Se dovesse tornare nelle vesti di imprenditore, su che tipologia di giovani investirebbe?

Di fatto non sono mai andato via dalla Sardegna! Prima c’è stata l’esperienza di “Intraprendere”, mentre stavo già lavorando a Milano, poi ho continuato ad avere sempre rapporti con l’Isola e a leggere i giornali locali.  Non mi considero un emigrato ma un cittadino che va e torna. Mi sento come il milanese che va a Brescia! Certo che, avendo sempre lavorato in grandi aziende, non potrei tornare qui e lavorare per un’azienda pubblica, né tornerei per fare politica; non escludo, invece, di tornare come imprenditore.  Investirei su giovani con una grande voglia di lavorare e un forte senso d’indipendenza. Penso sia preferibile collaborare con giovani che hanno voglia di crescere professionalmente e diventare imprenditori in un secondo momento. Meglio avere dei collaboratori che amano il rischio e che a loro volta vogliono creare spazi per intraprendere piuttosto che avere dei dipendenti che cercano un posto di lavoro, purché sia e che non avanno mai una idea brillante per sviluppare ed espandere i confini delle imprese. Devi cercare persone che possibilmente siano migliori di te e che abbiano voglia di lavorare in squadra: i giovani devono lavorare insieme, non da soli! 

 

Mariella Cortes

 

Autore dell'articolo
Mariella Cortes
Author: Mariella Cortes
Curiosa per natura, alla perenne ricerca di luoghi da scoprire, persone da raccontare e storie da ritrovare. Giornalista dal 2004 per carta, televisione, radio e web, lavoro a Milano come formatrice per aziende e professionisti e come consulente di marketing e comunicazione. FocuSardegna è il filo rosso che mi lega alle mie radici, alla mia terra che, anche nei suoi silenzi, ha sempre qualcosa da dire. Mi trovi anche su: www.mariellacortes.com
Dello stesso autore: