La Barbagia d’inverno, dunque. Per un barbaricino l’inverno è quasi una condizione naturale. Certo, per chi è abituato a pensare alla Sardegna smeraldizzata, alla Sardegna come regione monostagionale, può sembrare una stranezza pensare alla montagna, al clima alpino, al freddo secco, alla neve…Eppure basta voltarsi dal mare alla terra e si possono vedere le montagne che si gettano nell’acqua. Dentro a quelle montagne abita la sostanza di un territorio molto folklorizzato, ma ancora sconosciuto nella sostanza.

Il territorio barbaricino rifiuta, direi quasi geneticamente, il concetto di “divertimentificio”, la costa barbaricina rifiuta la condizione di “Caraibi del Mediterraneo”, che tanto piace ai tour operator improvvisati e ai turisti da gossip. Chi navigasse da Posada ad Arbatax lo capirebbe al volo. Chi passasse per mare dalla costa gallurese, quella dove è sempre estate, a quella barbaricina, dove le stagioni si alternano, vedrebbe a occhio nudo la differenza.

È proprio l’inverno che dà alla Barbagia quella profondità di territorio vivo, che fa la differenza per il viaggiatore rispetto al turista. Perché, come l’estate sostanzia il mare, l’inverno sostanzia i monti…A Nuoro, in Barbagia, d’inverno…

[…] Si tratta di procedere e, andando avanti, ritornare indietro. Al periodo in cui questa città era un paese di settemila abitanti lastricato di granito. Già all’altezza di via La Marmora si entra  in quel passato. Alla destra Seuna, il quartiere dei contadini, si aggrappa al crinale con le sue case larghe  e le sue corti. L’anima silenziosa e pia del luogo, come un paese a sé stante, un piccolo universo che vortica intorno alla seicentesca chiesa della Madonna delle Grazie, umile e maestosa. Da quel centro i nuoresi della terra avevano mosso processioni e intonato litanie contro la peste, affidandosi a una Vergine portata dal mare.

Da quel centro i legni da ardere hanno impregnato l’aria dell’aroma del leccio e della quercia attraverso i camini. Sino a cinquant’anni fa, quello era il punto più basso, zona di silenzio discreto e di umile sussiego. Sino a cinquant’anni fa le trame di vicoli e stradelli che l’attraversavano, ora asfaltate, erano straziate dalle ruote ferrate dei carri a buoi. In quei cortili, ora piccoli giardini d’inverno, si mondava il poco grano, si allevavano galline, si preparavano le olive per il frantoio.

Ora che Nuoro è diventata una città, qualcosa rimane a Seuna di quel silenzio, di quella discrezione operosa, di quella peculiare visione del mondo. Nelle case aperte intorno al cortile sempre lindo, nelle piantagioni di basilico e prezzemolo dell’orticello interno, nell’ombra scura che frantuma la luce impietosa. È la luce di Cenere della Deledda, la luce maestosa che bacia i poveri di questa terra.

Ancora qualche Tatana si aggira per quelle strade con la compostezza di una divinità intoccabile. Procedendo in avanti, lasciandosi Seuna alle spalle, si imbocca corso Garibaldi, che in altri tempi si chiamava Via Majore, strada maggiore. Lì i nuovi signori hanno fatto costruire le loro miniature di case umbertine come argini al fiume di granito grigio che ricopre quel tratto.

[…] È la via del commercio e degli incontri. Un ponte fra l’arcaico dimesso di Seuna e la carne viva, il cuore torbido di San Pietro. Il quartiere di San Pietro, appunto, che inizia proprio dove finisce il corso. Qui il silenzio è impregnato di una strana, inspiegabile inquietudine, quella dei padri pastori, probabilmente. Le case si fanno alte e sottili, grigie di un grigio argenteo. Per San Pietro il centro pulsante è la chiesa del Rosario, sede di prevosti acuti e parroci coltissimi. Sede di arte e pastorizia. È l’epica di una Barbagia troppo spesso vittima della sua stessa epica. Il nido d corvi magnificato da Salvatore Satta nel Giorno del giudizio.

La rocca dei Corrales, magnifici e briganti. Lo scrigno di tutti i pregi e di tutti i difetti della nuoresità. Orgogliosa di un orgoglio turbolento.

Qui siamo nella letteratura, siamo a Macondo. Attraverso questa porzione di mondo qualifica la differenza tra il viaggiatore e il turista. È un posto senza malie, è quello che appare: una storia scritta sulle facce, su ogni masso di granito, su ogni ciottolo di fiume dei selciati. È San Pietro: prendere o lasciare.

[…] Guardate le mani dei santupredini, ancora sanno impastare il pane carasau, ancora sanno mungere le pecore e pressare il formaggio, ma, allo stesso tempo, hanno imparato a guidare l’ultimo modello di fuoristrada, a premere i tasti di un computer, a digitare nei loro microscopici cellulari per comunicare col resto del mondo.

 

 

Foto credit Daniele Brotzu

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