DI EMILIANO DEIANA


Nei giorni scorsi è uscito un bel cortometraggio di Sergio Scavio intitolato “Meno cinque” che racconta degli ultimi cinque minuti prima della chiusura dei bar stabilita alle 18 dalle regole governative.

Intanto l’idea è geniale.

Cosa accade in un bar cinque minuti prima della chiusura? Quale vite si incrociano? Quali pensieri si alimentano? Quali vuoti si vogliono riempire prima del ritorno a casa?

Il corto è uno spaccato di vita: della nostra vita. Non staremo pertanto a raccontarvelo: vi consigliamo di vederlo. Perché tanto, nella visione, vi torneranno alla mente le vostre “scene”, la vostra vita appicciati al bancone di un bar.

E poi è un modo laterale, minimo, di raccontare questo tempo pandemico, il tempo del distanziamento e della segregazione, il tempo della contumacia, il tempo senza Tempo dove quei cinque minuti diventano vita, soffio vitale, spuma di birra che si appiccica ai baffoni affondati nel bicchiere: l’ultimo bicchiere.

Perché è nel bar che si snoda una parte delle nostre esistenze, dove attecchiscono come muffe a un frigo spento le amicizie più derelitte, i racconti più esilaranti, le risate più sussultanti. E ancora le risse, il vociare, le partite, le scommesse, le esaltazioni, le confessioni col barista che si china pretesco sul bancone a raccogliere ciò che alla fine gli avventori più resistenti hanno da dire, da farfugliare nel loro personalissimo viaggio al termine della notte.

Ma qui - qui - si racconta di quei precisi cinque minuti, gli ultimi prima della fine, prima di essere inghiottiti nell’imbuto del coprifuoco, con tutta la nostra solitudine, le nostre lacerazioni, le distanze incolmabili fra ciò che siamo e ciò che saremmo voluti essere, i cinque minuti nei quali, davvero, si comprende di quanto abbiamo sbagliato il bersaglio nella nostra vita, di quanto male ci siamo fatti e quanto ne abbiamo inferto agli altri.

Il bancone è la nostra bitta alla quale ci aggrappiamo quando il mare - come adesso - è in tempesta e non si sa quando ci consentirà di ritornare a viaggiare alla ricerca della nostra personalissima Itaca.

E allora ci abbracciamo all’ultimo bicchiere: al Campari, al Vermentino, alla birra, al whisky o a qualche cocktail il cui nome abbiamo sentito risuonare in qualche altro bar o canzone o lettura e ci abbandoniamo su quella riva a farci cullare dalle onde e dalla risacca alcolica, mentre il “liquore strega le parole”.

 

Ph:©Gianfranco Delussu

 

In questo rito, tutto personale e distanziato, siamo soli ad officiarlo: siamo i sacerdoti del nostro disfacimento, quando i sentimenti sono messi a nudo e ci abbondiamo alla liturgia della parola, all’amore che se ne è andato, al lavoro che non c’è, alla povertà che ci sta inseguendo, alle liti familiari, ai soldi che non bastano mai, alle bollette da pagare che ci lasciano - appunto - in bolletta, agli incanti delle luci colorate che ci ritornano, nella rimembranza, quando quel bar - quello stesso bar - conteneva un’umanità vociante e si sentiva davvero l’odore della carne, lo sfiato dei corpi.

Noi scendiamo nel gorgo di quei cinque minuti, tentiamo di aggrapparci ai secondi, al bicchiere della staffa, alla clemenza del banconiere, alla solidarietà alcolica delle forze di polizia, alla gentilezza di chi comprende quale inferno ci attende nelle ore della clausura e del coprifuoco.

C’è tutto in quei cinque minuti: la vita, la morte, la speranza, la solitudine, la solidarietà, il respiro del mondo, l’attesa di domani, il desiderio dell’oggi, del momento, dell’attimo in cui tutto può succedere perchè c’è ancora qualcuno disposto a credere al fatto che tu non sia arrivato in Serie A perché vittima di un infortunio al menisco a sedici anni oppure a millantare di essere il più grande scrittore morente di tutta la Città, un artista straordinario le cui opere - come un Van Gogh turritano - saranno scoperte solo dopo la tua dipartita dal mondo dei morti viventi.

E ancora le storie di donne, le grandi balle che si raccontano - sempre - sulle donne, sulle conquiste, sulle resistenze, sulle corna che alla fine,
indissolubilmente, diventano le proprie e si diviene sentimentali verso la fine, quando tutto il mondo è alla fine e ti affacci fuori e non c’è più nessuno e non sai più che giorno sia, di quale anno, di quale secolo.

È il posto dell’estrema clemenza il bancone del bar in quei cinque minuti: il luogo che ti assolve di tutti i tuoi peccati senza nemmeno la penitenza da espiare, per quella frase che apre ogni porta: “dai, mettila un’altra prima di chiudere”.

Per quei cinque minuti ultimi che ti lasciano però triste, solitario y final.

 

Guardate "Meno Cinque" su: https://vimeo.com/495805642?fbclid=IwAR20eQFjgnTm75ALvhtLXcCB89YfgRGxi2XG08toSA4ka9RWacuk_FfMeOc

 

Emiliano Deiana

Nato il primo aprile 1974 vive a Bortigiadas. Cofondatore della Libreria Bardamù di Tempio Pausania. È stato Sindaco di Bortigiadas per 15 anni, attualmente è Presidente di ANCI Sardegna. Ha pubblicato nel 2012 il libro di racconti satirici  'Bar Sport Democratico', Ethos Edizioni. 
Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo, 'La morte si nasconde negli orologi', Maxottantottoedizioni.

(Foto ©Andrea Deiana) 


 Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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Foto copertina:  ©Irene Bosu