Questo periodo vi potrà sembrare scontato che questo ‘strano scrittore’, scomparso per qualche tempo dalla scena della rivista, riemerga con un articolo che parla di morti e fantasmi e leggende sarde al riguardo. Premetto però che, secondo me, non c’è mai niente di scontato né ci sono tempi adeguati o inadeguati, magari tempi opportuni o inopportuni.

Comunque credo vi accontenterete.

Nella nostra Isola le leggende su fantasmi e spettri, apparizioni e anime tormentate si sprecano, come in ogni luogo.

Tuttavia, sono da ambientarsi lungo tutto l’anno: gli spettri sardi non hanno tempi privilegiati, ma nemmeno luoghi.

Certo, la notte tra la solennità di Ognissanti e la Commemorazione dei defunti è il momento privilegiato, ma non li troverete nei cimiteri più di quanto non li troviate lì ogni momento dell’anno, e così nelle chiese.

Sono anime incerte, insicure, che vagano dove più hanno peccato (ricordate il sacerdote che tornava ogni notte a celebrare messe votive nella sua chiesa cadente perché in vita aveva trascurato questo obbligo?), o anime innocenti ma comunque condannate dalle stesse parole del popolo, da secoli e secoli, a tornare e adempiere ad innocenti compiti che certamente anche i vivi potrebbero fare per loro.

E risparmierebbero tempo, come per le panas, donne morte di parto e sepolte con tutto il corredo per cucire gli abitini al proprio bambino. Questo lavoro peggiora quando li devono lavare la notte nell’acqua corrente di un rivo e, se vengono interrotte, devono ricominciare da capo, e per sette lunghi anni (!) maledicendo (e credo anche giustamente) chi le ha interrotte.

I ritrovamenti archeologici confermano che questa credenza è molto antica: nel cimitero di San Nicola a Sassari è stata ritrovata la sepoltura di una donna con ago e ditale. Ma doveva uscire fuori le mura per trovare acqua corrente, perché, sì, è un requisito importante.

L’acqua che scorre, che si smuove, che trascina e porta via, è simbolo di purificazione e lavaggio, non solo di prosaici panni ma in questo caso, dell’impurità del parto. Ma non solo. Porta via i peccati. Era antica usanza costringere una povera anima del Purgatorio ad aiutare i contadini durante i periodi di secca o di piogge torrenziali o altri problemi dei coltivi, legare un teschio (sottratto sacrilegamente ma ‘in buona fede’) dai cimiteri o tombe delle chiese, legarlo ad una corda che per l’altro capo si legava saldamente ad un albero vicino o altro.

Il teschio si gettava nel refrigerio dell’acqua fresca che avrebbe dovuto rinfrescarlo anche nell’oltretomba e lui, in cambio, avrebbe dovuto pregare per le intenzioni dei suoi amici rimasti sulla terra, ringraziandoli per il favore. Spesso funzionava, assieme a qualche preghiera che non rammento, e nemmeno si sapeva che testa s’era presa, un po’ come per le capuzzelle di Napoli, adottate ‘a naso’ ma sempre pronte ad ascoltare i generosi adottatori.

 

 

Alcuni morti, invece, si sono divertiti nel tempo a fare scherzetti ai vivi che – peraltro – nemmeno avevano chiesto il classico ma poco sardo ‘dolcetto o scherzetto’ o niente di simile.

Il loro riposo, infatti, nelle chiese e nei cimiteri annessi (sul lato nord solitamente – o dove vi era più spazio – quindi anche nel sagrato come nella tradizione rimasta in uso in molti luoghi) non era molto dilettoso per i pii fedeli, per i passanti, per nessuno (credo …). Il fetore dei cadaveri in decomposizione, anche se dentro casse sontuose, non permetteva di accedere con molta facilità ai cimiteri. Inoltre, dentro le chiese, la situazione diventava ancora più terrificante: il cattivo odore ammorbava l’aria e non bastavano incensi, finestrine e porte aperte per farlo uscire e – inoltre – lo scherzetto era sempre dietro l’angolo. A volte nell’aprire nuove fosse sul pavimento o nel chiudere le lastre di quelle già presenti dove si era appena deposto qualcuno, i facchini erano abbastanza superficiali. Capitava dunque che non fosse tutto livellato a dovere e, nella penombra delle chiese, i fedeli che si destreggiavano tra gradini di altari, colonne e pilastri, inciampavano nelle fosse mal chiuse, facendo inavvertitamente udire nel luogo sacro parole non proprio consone (non erano certamente in latino ma nel sardo più schietto). Ma questo scherzetto aveva una variante, quella col botto. Tante volte capitava che i cadaveri si mettessero appena sotto il pavimento, e la fossa coperta con mattoncini in cotto e poi – se era una tomba di famiglia con la pesante lapide in marmo – altrimenti si batteva bene la terra sopra e restava tutto così. Almeno finché la naturale decomposizione portava alcune salme a gonfiarsi ed esplodere, facendo saltare per aria mattoncini e terra battuta.

Il divertimento dei morti, in questo caso, dove stava?

Nel farlo durante le lunghe messe solenni! All’improvviso. Durante il Canone, quando il silenzio sacrale avvolge l’intero edificio e i fedeli sono tutti assorti, sentire il botto e vedere (e sentire col naso…) saltare per aria mattoncini ed altro causava un fuggi-fuggi generale, un sollevarsi disgustato di gonne e un tripudio di fazzoletti e cappelli posti sul naso per proteggersi dal fetore. Alcuni svenivano per lo spavento mentre il celebrante e gli assistenti, non potendosi muovere dall’altare, dovevano tutto sopportare. Questo scherzo era di pessimo gusto, e capitava raramente, ma ancora succedeva nel pieno XIX secolo. Oggi i morti forse lo fanno ancora – ma noi li abbiamo relegati dentro casse talmente sigillate che ‘non fanno divertire più’.

Invero nemmeno in passato, spesso, i morti facevano divertire: entrare nelle cripte delle chiese per deporvi un defunto era spesso pericoloso. I gas emanati dagli occupanti arrivati poco prima erano assai pericolosi e il risultato, a volte, era che chi entrava con un morto andava – senza rendersene conto – a fargli immediatamente compagnia. Ecco perché spesso i cadaveri si avvolgevano nel drappo funebre e si lasciavano cadere nella cripta senza entrarvi: non tutti si fidavano di quegli antri sotterranei così oscuri e maleodoranti. Può sembrare un cattivo comportamento verso il defunto ma, invero, non lo era affatto. I nostri avi avevano un contatto profondo con la morte e sapevano che il defunto avrebbe compreso il ‘lancio nel buio’ del suo corpo.

A volte invece se la passavano decisamente meglio. Nella primaziale di San Nicola di Sassari un cadavere è stato ritrovato in posizione da spiaggia (o – meglio – il suo scheletro): mani dietro la testa e pieno relax, di fronte all’altare maggiore e in prima fila per ogni solenne funzione. Forse complice il rigor mortis o chissà cos’altro, il nostro è stato messo ad aspettare il Giudizio finale nella posizione più rilassante che, si può supporre, è anche quella nella quale la morte lo ha colto. Doveva essere una persona molto serena.

 

Ed effettivamente i morti sardi sanno anche farsi perdonare e si accordavano con i becchini per la buona riuscita dell’orto.

Questi ultimi spesso si annoiavano nel mettere in ordine cespugli, fiorellini e tenere lontani animali o altro, e si dedicavano alla coltivazione di qualche ortalizia presso il loro posto di lavoro. Che c’è di male? Ognuno passa il tempo come può. I morti ricambiavano con fioriture spettacolari di ogni pianta – che andavano diritte ad ornare gli altari delle chiese – ma anche con rigogliosi cespi di verdura di ogni tipo, altissimi e verdeggianti. Qualcuno schizzinoso non li gradiva ma, del resto, era la risposta del Creatore alle premure che i becchini prendevano per tenere in ordine tutti i tumuli dei cimiteri.

Ormai se ne vedono pochi, sostituiti da altisonanti monumenti.

Ma anche da lì i morti sanno uscire e venirci incontro. Qualche volta nelle chiese si fermano a ballare, ma se il tempo è buono si incontrano anche nei crocicchi delle strade, specialmente in campagna. Unica regola: non fermatevi a ballare con loro perché, altrimenti, l’ufficio anagrafe del vostro Comune avrà ben presto da lavorare sul vostro fascicolo. Volgete le spalle e andate per la vostra, ricordando loro che quello è il loro ballo. Quando arriverà il vostro allora ballerete, ma non con loro in quel momento. Non fermatevi nemmeno se vedete qualche viso familiare. Nell’aldilà rispondono tutti alle stesse regole e non riuscirete a trattarci come prima. Ma se sentite qualche avviso rivolto a voi o ad altri, ascoltatelo: potrebbe esservi utile.

Infine, come possiamo dimenticare quello che di più buono ci portano i defunti ogni anno? La Sardegna apparecchia per loro una bella cena (senza posate – mi raccomando – e in una stanza ben ordinata!) con prelibatezze di ogni tipo e specialmente ottimi dolci. Ecco. Questo è il secondo motivo per ricordarli. Il primo è l’affetto che nutriamo e che dobbiamo nutrire per loro, sino a quando li ritroveremo. E potremmo inventare insieme nuovi scherzi da fare a chi è rimasto quaggiù.

A proposito di ricordi. Nel 2021 ricorre il quarto centenario dalla morte di un grande arcivescovo sassarese: Antonio Canopolo (Sassari 1540 – luogo sconosciuto 19 agosto 1621).

Sapete, anche lui – che in vita è stato un personaggio chiave per la cultura sarda tra Cinquecento e Seicento (ve ne parlerò…), da morto ci ha giocato uno scherzo.

Io sono il suo biografo e non mi ha mai aiutato a trovare la sua sepoltura.

Di lui resta un ritratto che da qualunque parte lo si osservi pare muova gli occhi e vi osservi anche lui, ma nessuna sepoltura, né a Sassari dove fu nominato arcivescovo né a Oristano dove lo era prima.

Chissà se mi dirà qualcosa … Ve lo farò sapere. E ora, con questo mistero ma, specialmente, ricordo e piccolo tributo ad un immenso personaggio della nostra Isola, chiudo queste mie poche chiacchiere, sperando di non avervi annoiato o … spaventato.

 


 

 

MARCELLO DERUDAS

                                                                                                                    

 Storico, storico della Chiesa, storico e docente di storia dell’arte. Laureato in Filosofia e specializzato in Filologia moderna, Industria Culturale e Comunicazione presso l’Università di Sassari, ha compiuto studi archivistici e biblioteconomici presso il medesimo ateneo. Responsabile per i Fondi Storici Archivistico e Bibliografico del Convitto Nazionale Canopoleno di Sassari dal 2009 al 2017, ne ha preso in cura anche l’ingente patrimonio artistico. Attualmente è borsista di ricerca presso la Scuola di Dottorato del Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari dove si occupa di storia ecclesiastica medievale e moderna della Sardegna. Ha pubblicato diverse opere e articoli tra cui la monografia Ossi. Storia, arte, cultura (Cagliari 2012 / Sassari 2013), l’edizione critica del Rituale di apertura della Porta Santa di San Michele di Salvennor con la riscrittura della storia del monastero alla luce dell’acquisizione di documentazione inedita (nell’ambito della Collana Meilogu – Sassari 2014), la monografia Il Convitto Canopoleno di Sassari. Una finestra aperta su quattrocento anni di storia (Sassari 2018), l’inventario inedito delle carte e della biblioteca dell’ultimo vallombrosano di Sardegna Adriano Ciprari (Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna – Cagliari 2020) e ha in preparazione l’edizione critica degli atti delle visite pastorali dell’arcivescovo Salvatore Alepus. Ha collaborato e collabora con diversi enti culturali, tra i quali la Pinacoteca Nazionale di Sassari.

 

Qui trovate l'intervista a  Marcello Derudas e le anticipazioni della rubrica #Pilloledistoria  

 

 ©Le foto all'interno dell'articolo sono di proprietà di Marcello Derudas.
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La foto di copertina è un'opera di Costantino Nivola, Su Mortu Mortu. La fonte originale della foto è:

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