DI MARCELLO DERUDAS* 

Ogni luogo ha un suo primato, reale o millantato. Alcuni di questi non sono particolarmente ‘lieti’, ‘vitali’, anzi, spesso, hanno un epilogo tragico.

Ma, a volte, nella storia, il tragico sfuma, nel corso dei secoli, diventando quasi leggenda e perdendo molti connotati negativi. Il male si dissolve e lascia il posto ad un ricordo inquieto, ad un passato che con tracce silenziose e monitorie ancora ci osserva e ci insegna, ci affascina.
Questo è il caso delle ville scomparse della Sardegna antica e medievale.

Non è questo il momento per dissertare su come siano nate ma il loro sviluppo è, quasi sempre, strettamente connesso alla persistenza di una presenza umana preesistente, prenuragica, nuragica, punico-romana, bizantina.
Tuttavia, la tara genetica caratterizzante gli insediamenti medievali sardi – nonostante la loro grande vitalità e il loro relativo benessere - era l’instabilità.
I centri nascevano velocemente e altrettanto velocemente potevano scomparire, nonostante l’apparente solidità che emerge dalle fonti. Influivano problemi importanti come epidemie, carestie e guerre ma anche problemi causati da questo o quell’altro signore oppure altre disgrazie che ai nostri occhi possono addirittura apparire insignificanti.

Tutta la vita del centro si svolgeva intorno alla chiesa, spesso posta a monte del gruppo sparso di case e preceduta da un vasto spiazzo. Le chiese non erano soltanto luogo di preghiera e di spiritualità ma anche un luogo di incontro, riunione e discussione. Ci si riuniva nella chiesa perché era l’edificio nobile, l’unico ad essere costruito in blocchi di pietra, apparendo così solido e “sicuro” (materialmente e metaforicamente). È proprio per questa loro solidità e ricchezza di materiali che le chiese, nel 70% dei casi, sono sopravvissute nonostante la fine del villaggio circostante e il loro successivo abbandono. Le case, invece, erano costruite con materiali più deperibili, come pietre legate con malta, legno e coccio per le tegole di copertura. Le abitazioni erano quasi esclusivamente ad un piano, piccole e assai vicine una all’altra. Il Condaghe di San Gavino al proposito è assai eloquente quando dice: “in tota Sardingia non si accataat domo qui esseret de calchina, si non esseret ponte, over ecclesia”.

I confini del villaggio erano naturali: una pietra, un rudere antico, un albero particolarmente grande, un ruscello, un sentiero, una recinzione a secco, un nuraghe, una pietra fitta.
Esso nasceva per la terra e con la sua terra viveva in simbiosi, poiché ne ricavava il proprio totale sostentamento.
Quando la terra apparteneva liberamente alla collettività era definita populare, come testimoniano i vari condaghes. Talora alcuni donnos avocavano a sé – con l’avallo giudicale - l’usufrutto di terreni pubblici del regno o di populares tramite la cosiddetta secatura de rennu. I giudici favorivano tale procedura poiché era un utile mezzo per favorire il popolamento e lo sviluppo economico delle campagne. Alcuni villaggi (o loro specifiche chiese), potevano essere donati dal giudice anche a un particolare monastero che da quel momento godeva dell’usufrutto totale del bene. Spesso le donazioni agli ordini religiosi consistevano in vasti appezzamenti bisognosi di trasformazione e risanamento. Questi grandi lasciti avvenivano principalmente per benevolenza alla Chiesa, per il suffragio futuro alla propria anima, ma anche per mostrare la propria munificenza.

A partire dal XII secolo e sino al XIV il regime di servitù – caratteristico del sistema lavorativo ed economico sardo - si sciolse definitivamente.
Ogni abitante divenne indipendente, titolare di una sua abitazione e di un proprio appezzamento.
Il dissolversi del regime servile avvenne, non a caso, in concomitanza del radicarsi della presenza di Pisa e Genova prima e aragonese poi. Le influenze straniere, infatti, allontanarono sempre più l’isola dai suoi arcaici ma efficaci sistemi produttivi ed economico-sociali. Tra i nuovi profili sociali che ben presto emersero, il fuoco è quello che meglio illustra la nuova organizzazione dell’abitato sardo post-giudicale. Il termine fu da subito utilizzato per indicare ogni singolo gruppo familiare nel villaggio, con evidente riferimento al focolare attorno al quale ogni famiglia si stringeva. Anche nella geografia politica del territorio vi furono sostanziali cambiamenti: le signorie fondiarie scomparvero, i vari saltos dei villaggi vennero ridisegnati.

Tutti questi cambiamenti e “intromissioni” da parte di altre potenze non avvennero certo senza sconvolgimenti politici. Pisa e Genova, due grandi città marinare, ora con mezzi politici ora con matrimoni di interesse e forzature, erano riuscite a incunearsi nella società giudicale sarda pregiudicandone irrimediabilmente l’immunità e l’indipendenza.  

Nell’aprile 1297 l’Isola venne infeudata a Giacomo II d’Aragona da Bonifacio VIII con la bolla Super reges et regna. Il pontefice cercò così di allontanare gli aragonesi dalla Sicilia a favore degli angioini e, specialmente, di estromettere definitivamente la nemica Pisa dal controllo (seppur parziale) della Sardegna. I sovrani di Aragona, divenuti anche Re di Sardegna e Corsica, riusciranno però a prendere possesso effettivo dell’Isola solo molto tardi, giacché né Pisa, né Genova né il giudicato d’Arborea accettarono di buon grado la sottomissione agli iberici.

L’Arborea, seppur legata a queste terre anche da legami di sangue, tentò in più di contrastare militarmente gli aragonesi ma con infelici esiti. Nel 1409 le truppe sarde furono sconfitte nella battaglia di Sanluri, e così nel 1478 (battaglia di Macomer).
Già dal 1340, inoltre, si erano aggiunte alle caotiche vicende belliche cattive annate agricole (che spesso precedevano o seguivano forti epidemie).

La più catastrofica carestia del secolo nei paesi mediterranei avvenne nel 1374, seguita da una seconda nel 1421 e da una terza nel 1540 Quest’ultima, la più terribile, portò le persone rimaste senza cibo a consumare cani, topi e – addirittura – i propri figli. A tutto ciò si aggiunse anche la temibile peste nera, vero flagello del medioevo europeo. Tra la pandemia del 1348 e la fine del XV secolo, la Sardegna subì sette epidemie di peste (nel 1347/1348 sino al 1350, 1376, 1398, 1403/1404, 1410, 1422, 1424, 1476 e 1477).
Per esemplificarne bene la portata distruttiva, si consideri quest’esempio: nel primo ‘300 la Sardegna poteva contare un fuoco rurale per Km quadrato; verso il 1359 – al termine della prima grande epidemia – si ritrovano solo due fuochi ogni 3 Km quadrati. Alla peste si aggiunse anche la malaria, che nello stesso XV secolo spezzò migliaia di vite umane. Proprio per questa serie di sventure la popolazione (ormai diminuita e assai insicura nelle campagne) si spinse in massa verso i centri più grandi lasciando in abbandono case, chiese e terreni, mentre si sfaldava inesorabilmente il sistema amministrativo-fiscale che i pisani avevano imposto al loro arrivo.

 

In tutta l’isola furono decine e decine i villaggi che scomparvero in quegli anni. Il numero di nuclei abitati nelle zone agricole passò da 318 nel 1300-1324 a solo 150 nel 1485 (- 52,8 %). Di ognuno di essi scomparve ben presto ogni traccia. Scomparvero addirittura intere diocesi, svuotate e impoverite dalle disgrazie, dalle malattie, dalla guerra e da “aliis sinistris eventibus”. Restarono ancora solo le chiese e i ponti, muti testimoni di un passato prima florido poi doloroso.

Il fenomeno dei villaggi abbandonati è effettivamente uno dei più inquietanti e al contempo originali primati del medioevo sardo.

In nessun’altra parte d’Europa è stata mai rilevata una percentuale d’abbandono così alta e disastrosa.
I centri che più risentirono della grave situazione della Sardegna furono quelli ad economia agricola (tra il 1324 e il 1485 si spopolarono il 59,7% dei centri agricoli) e quelli ad economia pastorale (ne scomparve ben il 60,1%). La campagna, in generale, perdette molto valore abitativo rispetto alle grandi città. I saltos e i campi abbandonati dai vecchi proprietari non vennero più riutilizzati come terreno agricolo ma divennero libero terreno da pascolo. I nuovi grandi “feudatari” raccolsero nelle loro mani tutti i piccoli lembi di terra abbandonati, facendone loro esclusivo possesso (anche se quest’appropriazione non fu arbitraria: furono i vari sovrani d’Aragona a donare i villaggi e i salti ai sardi e agli aragonesi fedeli alla loro causa). Ad ogni feudo fu  imposto un contributo in uomini d’arme (in particolare nella prima difficile fase di insediamento iberico) conforme alle proprie capacità. Naturalmente i ruoli politico/amministrativi all’interno del villaggio cambiarono, e il timbro giudicale, così come lo vediamo nei condaghes, di molti centri iniziò a svanire.

Nel momento in cui gli aragonesi riuscirono ad ottenere definitivamente il controllo totale della Sardegna (dopo la chiusura degli ultimi conflitti con gli occupanti pisani ma anche con la popolazione locale), la maggioranza dei piccoli centri abitati sopravvissuti si era ormai quasi stabilizzata. Alla fine del ‘400 il numero dei villaggi si aggirava intorno ai 360. In più il numero dei fuochi, dopo la calata vertiginosa di qualche decennio prima, iniziò ben presto ad aumentare nuovamente. Nel 1485 la densità dei fuochi è di 57,8 unità, mentre nel 1589 aumenta sino a 162,1 unità. Un aumento considerevole riguardò altresì la popolazione rurale, nonostante i continui alti e bassi demografici cui sarebbe stata soggetta negli anni successivi.

Tutti questi numeri che ho sciorinato sono stati noiosi?

Probabilmente, ma, del resto, anch’essi concorrono alla delineazione di quel fenomeno tutto singolare e ancora oggi affascinante che è quello delle ville scomparse della Sardegna. Il tema, che già affascinò studiosi di alto livello come John Day (cui si devono le statistiche e le cifre che ho riportato – non perfette perché la ricerca è sempre in fieri) affascina oggi anche semplici appassionati ma anche gli studiosi.

Ha affascinato Giovanni Francesco Fara nel XVI secolo (il primo che si interessò a darci un primo resoconto dei centri scomparsi di cui lui poté ancora vedere le rovine – e non scriveva a tavolino il buon vescovo ma, tirate su le vesti sacre, si avventurava egli stesso tra ruderi, nuraghi, chiese e vallate impervie).

Ha affascinato Francisco de Vico, che copiò dal Fara le liste ma egli stesso ne perfezionò alcune parti, e così Jorge Aleo e numerosi scrittori del Seicento sardo sino agli studiosi dell’Ottocento come l’infaticabile canonico Giovanni Spano che tentò, fra i primi, di ricollocare al loro posto quei luoghi che antiche leggende e le fonti allora scarse ancora ricordavano, anche se qualche volta ci cadde con tutte le scarpe (aveva una gran fantasia).

Ma come lui cadiamo anche noi, perché la Storia non si fa prendere facilmente, e la suggestione è sempre dietro l’angolo, che sia di un antico acquedotto o di una chiesa romanica. Certo, oggi possediamo numerose fonti che in passato non erano emerse dagli archivi, e tante ancora attendono pazienti.

Ma i centri scomparsi hanno lasciato di più: nella loro assenza – paradossalmente – vivono di più, ma si comprendono e sentono più facilmente nel silenzio. Oggi, spesso, si fa a gara a chi ne identifica di più, a chi ritrova maggiori chiese distrutte, ruderi, pietre… Ma chi si ferma ad ascoltare la voce di quegli antichi nostri avi che ancora riecheggia in quelle campagne?

Osservate bene voi che leggete: nei luoghi ove sorgeva un antico villaggio vi è sempre un silenzio più silenzioso, una pace più pacifica, un senso di quiete quasi inquietante, a volte opprimente.

Mille voci si accalcano in una sorda pace.

Personalmente, come ebbi a dire nell’intervista che lasciai quando giunsi su queste pagine, ho sempre sentito queste sensazioni e proprio queste voci mi hanno portato ad essere quel che sono, anzi, proprio tornare in quelle campagne silenziose, fra quei ruderi affascinanti, e ascoltare il racconto degli anziani sugli ‘antichi’, sos antigos.

C’è della magia in questo e chi non la comprende, penso, potrà fare eccellenti lavori al riguardo ma, forse, annoieranno un po’.

Lungi da me, però alcun giudizio: ognuno sente diversamente.

Ma sono tanti i luoghi che un tempo ospitavano grandi villaggi, e singolari abitanti – come Gosantine Pacu-mi restat o Gunnari Camba curtha o il Gosantine Cok’e-mandica dei nostri preziosi condaghes – uno forse con un piede nella fossa, l’altro un tantino zoppo ma lungi dal cimitero, l’altro abbastanza pratico di cucina e buongustaio.

Ma l’ironia non serve molto per rammentare questi centri, anche se giova ricordare che già mille anni fa i sardi si divertivano ad appioppare soprannomi in base a precise caratteristiche dei personaggi, più per un facile riconoscimento che per mero dileggio. E lo fanno anche oggi, ma con un pareggiamento delle motivazioni.

Recatevi in uno di questi luoghi (non vi sono centri in Sardegna che non abbiano ‘memoria di antiche popolazioni’ parafrasando – ma neanche tanto – Vittorio Angius).

Sedete al tramonto presso i ruderi della chiesa, o se è intera, dinanzi ad essa, e ascoltate il silenzio.
Se sopravviene un momento di angoscia è paura, è normale.
La Storia dei nostri avi, loro stessi e la nostra terra, ci parlano e, spesso, opprimono.
Tutte le persone lì sepolte non hanno mai cessato di vivere e le loro opere sono sempre da qualche parte nel tempo e noi vi siamo immersi.
Per quel che mi riguarda, una volta l’oppressione fu tale che mi allontanai da una chiesina millenaria a passo svelto, ma fu abbastanza persuasivo, al riguardo, un cinghiale. O almeno credo: non so chi passasse fra l’erba dinanzi a me, abbassandola pian piano. Soltanto veniva verso la chiesa, e questo bastò. Quella volta. Le altre volte furono sogni insistenti a spingermi verso altre chiese, e questo non accadde solo a me. Com’è uso, potrei portare qualcuno a testimone, ma non ho il solito cugino o amico del cugino o zio della nonna etc. Basta. Un amico sognò semplicemente un ponte, che univa dal medioevo tre ville, e ancora le unisce. Niente di strano se non fosse che lui lo sognò distintamente in Belgio, senza averci mai messo piede.
E anche io rividi il rudere d’una bella chiesa trasformarsi e diventare vivo, ma la nitidezza del sogno, purtroppo, non corrispondeva più alla realtà. Mi recai nel luogo e tutto era come sempre: ruderi imponenti e perfetti nella loro rovina, pietre, frammenti d’ossa di povere persone che vogliono riposare in pace, lontano dai noi storici e archeologi che, spesso, li portiamo dentro laboratori, lontani dal cantuccio scelto secoli prima per il lungo sonno che non risparmia nessuno.

Se dunque vedete una piccola chiesa dispersa fra le campagne, non chiedetevi troppo sul chi e come e perché la ha costruita. Nella maggior parte dei casi è quello che resta di antichi centri ora non più visibili.

Se sentite di santi antichi portati in nuove chiese non meravigliatevi se avranno un aspetto un po’ nostalgico.
Se sentite gli anziani dei nostri paesi cantare ancora di antiche dimore che furono costretti ad abbandonare, non spaventatevi: sono i nostri avi che cantano con loro.
Se sentite un vociare ondivago, che si muove assieme al vento e alle piante che si chinano lievemente, non intimoritevi: passano i nostri padri, che percorrono una lunga strada e si fermano devotamente dinanzi alle loro chiese.
Se vagabondate nelle campagne e un prete vi invita a servir Messa, che sia in una bella chiesa abbaziale o in una modesta chiesa diroccata, dategli una mano: sulla terra non ha celebrato tutte le Messe che gli furono chieste e ora deve farlo finché anche lui non si unirà, con noi, al lungo corteo che si perde nel tempo.

Vi ho annoiato, forse, ma voglio lasciarvi ancora un avviso: abbiate rispetto per questa terra, chiese e ponti, ruderi e cocci.

Essi non servono solo come tramite per passare dall’altro lato del fiume, o per entrare in contatto con il divino o l’aldilà o per abbellire costruzioni varie, ma anche per entrare in contatto con più prosaiche sedi delle forze dell’ordine: ‘Non rubare - Non desiderare la roba d’altri’, insomma: vedere, sentire, anche toccare, ma lasciare tutto come e dove si trova.

I guardiani sono sempre presenti.

 

 



 

MARCELLO DERUDAS

                                                                                                                    

 Storico, storico della Chiesa, storico e docente di storia dell’arte. Laureato in Filosofia e specializzato in Filologia moderna, Industria Culturale e Comunicazione presso l’Università di Sassari, ha compiuto studi archivistici e biblioteconomici presso il medesimo ateneo. Responsabile per i Fondi Storici Archivistico e Bibliografico del Convitto Nazionale Canopoleno di Sassari dal 2009 al 2017, ne ha preso in cura anche l’ingente patrimonio artistico. Attualmente è borsista di ricerca presso la Scuola di Dottorato del Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari dove si occupa di storia ecclesiastica medievale e moderna della Sardegna. Ha pubblicato diverse opere e articoli tra cui la monografia Ossi. Storia, arte, cultura (Cagliari 2012 / Sassari 2013), l’edizione critica del Rituale di apertura della Porta Santa di San Michele di Salvennor con la riscrittura della storia del monastero alla luce dell’acquisizione di documentazione inedita (nell’ambito della Collana Meilogu – Sassari 2014), la monografia Il Convitto Canopoleno di Sassari. Una finestra aperta su quattrocento anni di storia (Sassari 2018), l’inventario inedito delle carte e della biblioteca dell’ultimo vallombrosano di Sardegna Adriano Ciprari (Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna – Cagliari 2020) e ha in preparazione l’edizione critica degli atti delle visite pastorali dell’arcivescovo Salvatore Alepus. Ha collaborato e collabora con diversi enti culturali, tra i quali la Pinacoteca Nazionale di Sassari.

 

Qui trovate l'intervista a  Marcello Derudas e le anticipazioni della rubrica #Pilloledistoria  

 

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