La seconda serata del festival, con un taglio più sperimentale rispetto alle altre, si apre con una importante variazione sul programma. Beeside e Populus annullano le reciproche esibizioni, per cause indipendenti dagli organizzatori, i quali, a breve giro di posta, dirottano i concerti gratuiti previsti al Teatro Santa Croce, direttamente al Teatro Civico. Il cantautore nostrano Franksy Natra si ritrova così ad aprire davanti a quella che sarebbe dovuta essere la platea principale ma che, come per la prima giornata, forse a causa dell’ora, forse per colpa del tempo, non ancora è quella delle grandi occasioni.

L’intraprendente musicista sulcitano non sembra curarsene tanto e, forte probabilmente dell’esperienza fatta con Plasma Expander e Takoma in giro per l’Italia e l’Europa, si presenta con l’ironia che lo contraddistingue e suona con una buona padronanza del palcoscenico. Nonostante il background di tutto rispetto, in versione cantautorale, sembra però non aver ancora conseguito una maturità degna dei maestri che in apparenza avrebbero dovuto ispirarlo, su tutti Dylan e De Gregori. Ma compensa alla grande con inventiva e una discreta dose di sfacciataggine, che in questo caso non fanno certo rimpiangere altre doti più mainstream. Nell’acoustic stage, armato di voce e chitarra, ha fatto seguito Giuliano Dottori, altro dotato cantautore che arriva dall’esperienza con i bravi Amor Fou e non solo. Il buon Dottori presenta brani riconducibili a quella che in Italia è stata identificata (spesso a caso) canzone d’autore, dove si presume ci sia una ricerca più curata, che si spinga oltre il cantautorato in senso stretto, prediligendo arrangiamenti più complessi, dei quali però non si sente la mancanza in un’ esibizione scarna e essenziale, come quella al KME. I brani non perdono niente ma acquistano, per contro, una nuova forma, altrettanto interessante, valorizzata in qualche modo dalla apparente timidezza, compensata ogni tanto da timorosi tentativi di coinvolgimento di un pubblico ancora in fase di riscaldamento.

Si torna così al main stage dove attende sul palco il primo vero Big della serata, accompagnato da Giorgio Valentino, Blaine Leslie Reininger, uno dei fondatori dei Tuxedomoon, quarto lato del cosiddetto “Quadrato di San Francisco”, fondamentale band new wave avanguardista della west coast, che nella sua quasi quarantennale carriera ha sperimentato di tutto, tra Stati Uniti e Europa. In questa veste Reininger propone, con il giovane chitarrista, brani provenienti dalle carriere di entrambi, ai quali il duo conferisce abilmente le atmosfere decadenti e il sound macchiato di tex-mex e elettroclash, marchio di fabbrica del californiano. Anche in questo caso fanno ampio uso di basi elettroniche full optional, e vedere Blaine Reininger costretto a premere play sul Mac per dare lo start al pezzo, invece che la solita occhiata di intesa con gli altri musicisti, fa sempre molto strano.

La delusione è comunque smorzata dal tocco, sempre valido nonostante l’incidente che, durante il periodo brussellese, gli ha causato la rottura delle dita della mano destra, ricordato dal musicista sul palco in uno stentato italiano inglesizzato. Durante la seconda parte dell’esibizione, il musicista aggiunge, alle già innumerevoli influenze riscontrabili nella musica proposta, una interessante componente gipsy quando imbraccia il violino elettrico, stranamente poco invadente, impreziosendo così una esibizione già di altissimo livello.

Nell’acoustic stage il pubblico si trova, in seguito, di fronte a una imponente impalcatura costituita da xilofono, vibrafono, batteria elettronica, sinth, qualcos’altro di non meglio definito e tanti cavi. È la plancia di comando del rumorista e percussionista Sebastiano De Gennaro, altro musicista, tra quelli presenti al KME, che vanta un pedigree di tutto rispetto nel gotha dell’indie italiano. Esordisce con un approccio simil-forestale, passando in rassegna sonorità avifaunistiche fino ad arrivare a sfuriate techno, attraverso tutti i suoni che gli riesce tirare fuori dall’attrezzatura a sua disposizione. A tratti estenuante, cattura comunque il pubblico e fa capire, soprattutto ai non addetti ai lavori, che il rumorismo è una cosa seria e che a pochi è concesso il dono di comprenderlo davvero fino in fondo.

L’esibizione di De Gennaro ha comunque il merito di proiettare i presenti in un’altra dimensione, fungendo da rampa di lancio verso il live di chiusura della serata, che ha visto protagonisti l’austriaco Hans-Joachim Roedelius e il tedesco Stefan Schneider, vere e proprie istituzioni nell’ambito della musica elettronica a livello mondiale. Il primo, pioniere del genere, ha collaborato fin dagli anni ‘70 con personaggi del calibro di Brian Eno e David Bowie, e, durante l’esibizione al Karel, si è alternato al sinth e al piano, proponendo atmosfere rarefatte, ritmi lenti e tempi estremamente dilatati. L’esibizione parte in maniera molto pacata, forse troppo. Qualcuno tra il pubblico, con molta discrezione, lascia le poltroncine.

Verso la metà dell’esibizione i brani, suonati senza soluzioni di continuità, sembrano però acquistare maggiore brio e sprazzi di vivacità, per quanto di vivacità si possa parlare durante un concerto del genere. I due sanno però il fatto loro, e si vede. L’ascolto non è del tutto sgradevole ma, in certi momenti, specie durante la prima parte dell’esibizione, risulta arduo riuscire a cogliere tutte le sfumature nascoste dietro il lavoro e la dedizione del musicista, dietro tutto quel roteare di manopole, di volumi e di toni; dissolvenze e ritmi che emergono e spariscono, e tappeti sonori che restano a lungo latenti per riaffiorare silenziosamente quando sono già dimenticati. Ecco, tutto questo, per quanto potesse realmente piacere, a molti dei comuni mortali presenti in sala, e che annuivano compiaciuti durante l’esibizione, credo proprio sia sfuggito. Compreso il sottoscritto. Ma questo ha, ovviamente, poca importanza.

 

Simone La Croce

(Photo credits Stefania Desotgiu)


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