Ieri la manifestazione dei pastori si è chiusa con la promessa, da parte del Presidente della Regione, dell'Assessore all'agricoltura e dei capigruppo, di destinare 35 milioni alle ragioni e alle richieste del Movimento Pastori sardi.
La prima domanda, tralasciando le questioni di metodo a cui purtroppo sono tristemente abituato, è sempre la solita: dove li troviamo?
Dubito si tratti di risorse dimenticate in qualche meandro del bilancio, un po' come quando capita di trovare una banconota sgualcita nelle giacche invernali riposte nell'armadio al cambio di stagione.

Ne dubito, perché ricordo bene il dibattito che ha portato all'approvazione delle ultime tre finanziarie in cui è stata quasi del tutto azzerata la spesa corrente e il finanziamento delle leggi di settore con fondi regionali nell'idea che i fondi europei potessero soddisfare ogni necessità.
Ricordo che il deficit 2016 della sanità, ancora non colmato, è stato superiore ai 300 milioni e sulle stesse cifre, milione più milione meno, si attesterà quello del 2017.
Credo sia stata una pessima idea esporsi così tanto al termine di una manifestazione, seppur drammatica e appassionata. Lo è perché sia in termini di cassa quanto, sopratutto, di spazi finanziari fatico a trovare quelle risorse all'interno del bilancio regionale.
Ora. Io credo che il problema dei pastori sia grave e serio. Ma credo anche che fosse facilmente prevedibile sin dall'anno scorso proprio per i gravi problemi a monte di quell'economia.
Per questo mi chiedo: cosa c'è di nuovo? Se quei soldi erano nelle nostre casse perché non destinarli prima della manifestazione di ieri. Avremo risparmiato un po' di fatica ai manifestanti e un po' di disagi ai cittadini. Il Governo regionale avrebbe dimostrato piglio e autorevolezza nell'evitare l'ennesima manifestazione sotto i palazzi di via Roma e di Viale Trento.
I 14 milioni stanziati sei mesi fa erano insufficienti, lo sapevamo anche allora. Ma quella cifra era il massimo possibile e, al netto di alchimie contabili che mi sfuggono, lo è ancora.
Può darsi, non lo escludo, che le interlocuzioni con lo Stato che vanno avanti da mesi stiano per portare qualche buona notizia per il bilancio regionale.
Se, viceversa, quelle risorse non dovessero esserci e vadano quindi ancora recuperate credo che sarebbe stato bene chiederci, prima di fare qualunque promessa, quale settore dovrà rinunciare alle risorse promesse appena qualche mese fa.
Chi non verrà pagato? Gli studenti che aspettano la borsa di studio? I beneficiari di 162? I poveri in attesa del REIS? O verrà fatta, finalmente, quella spending review che in questi tre anni non ha intaccato alcune società in house trasformate in consulentifici?
Lo dico perché non ho nessuna intenzione di firmare cambiali in bianco e di avvallare a prescindere qualunque scelta si abbia in mente di fare per recuperare quelle risorse.
Credo che la crisi della pastorizia fosse prevedibile. È quasi un caso di scuola per studenti al primo esame di microeconomia, uno di quelli su cui gli istituti di ricerca universitari ogni anno monitorano, prevedono e su cui scrivono pagine e pagine di trattati.
I problemi sono strettamente legati alle dinamiche di un settore storicamente legato alla domanda estera e all'essere, nel mercato internazionale, un prodotto facilmente sostituibile.
Noi siamo convinti che fuori dalla nostra isola le produzioni ovicaprine sarde siano sempre e solo sinonimo di alta qualità. Come il vino rosso delle Langhe o la carne bovina in Toscana.
La realtà purtroppo è ben diversa ed è sufficiente analizzare qualche dato per rendercene conto.
La domanda statunitense è stata la principale molla che ha portato alla crescita esponenziale del settore nella nostra isola sin dal 1897, anno in cui in Sardegna si avvia la produzione del Pecorino Romano che in breve tempo porta all'aumento dei capi ovini dagli 850mila del 1881 agli oltre 2 milioni censiti nel 1918.
La gran parte della nostra produzione, tanto all'inizio del secolo scorso quanto ai giorni nostri, finisce per essere parte di prodotti di non sempre eccellente qualità che gli industriali statunitensi utilizzano come semilavorati o come componente di mix da grattugia.
La Sardegna ha prodotto durante la campagna casearia 2015/2016 286 milioni di litri di latte destinato a produzioni DOP.
il 69% di questo è stato trasformato in Pecorino Romano.
Dalla trasformazione di questi, sono stati prodotti oltre 30mila tonnellate di Pecorino Romano DOP da 35 caseifici sardi, circa il 97% della produzione italiana, a fronte di meno delle 1500 tonnellate di Pecorino sardo e delle 550 di Fiore sardo.
Che fine fa questa grandissima quantità di formaggio prodotto? Il 70% viene esportato fuori dall'Italia, in grandissima parte negli Stati Uniti.
Nei primi sei mesi del 2016, pur in presenza di una fortissima contrazione della domanda, gli Stati Uniti hanno importato oltre 8mila tonnellate di Pecorino Romano, Più di 5mila di queste destinate ai mix grattugiati.
E' questo il problema principale.
Ogni dieci litri di latte munto in Sardegna quattro finiscono quando va bene nella produzione di mix grattugiati come quello rappresentato nella foto e quando va male in semilavorati industriali e in prodotti destinati a consumatori che talvolta non saprebbero riconoscere una provola da una mozzarella.
Quello che dovrebbe essere un settore caratterizzato dall'alta qualità e da una domanda legata a questa, finisce in realtà per essere condizionato da produzioni fortemente influenzate dal prezzo e dalla possibilità di essere sostituibili con altri prodotti omologhi. Negli ultimi 7 anni il prezzo del Pecorino è oscillato dai 4,86 € al kg del 2011 sino ai 9,14 del 2015 per poi crollare ai 5,30 di quest'anno. Le oscillazioni sono state strettamente legate a quelle dei formaggi vaccini italiani il cui prezzo è stato fortemente influenzato dagli effetti del terremoto dell'Emilia nel 2012, ora del tutto cessati.
Non è un caso: i mix grattugiati da tavola vengono composti tenendo conto prevalentemente dei prezzi di acquisto per cui il produttore sceglie di volta in volta come comporre il mix in base al prezzo di mercato dei differenti formaggi.
Questo significa non avere nessun tipo di controllo possibile diretto o indiretto sul prezzo dei fattori di produzione e quindi sulla remunerazione del latte e sul prezzo del lavoro dei pastori sardi.
Credo che i piccoli interventi emergenziali, anche se necessari, siano solo dei palliativi destinati a esaurire i loro effetti nel corso di questa annualità.
Si tampona, si mette una pezza, si risponde a un'emergenza e a un grido di dolore con un intervento spot. Ma se non si fa niente per modificare l'attuale situazione ci si condanna a dover fare i conti nei prossimi anni e decenni con gli stessi problemi di sempre.
O interveniamo con politiche di medio e lungo periodo sulla competitività dei nostri prodotti e sul miglioramento degli standard qualitativi degli stessi oppure a poco serviranno i 35 milioni promessi e ancora non recuperati.