DI ALBERTO MARCEDDU*

Stupisce lo stupore sugli aumenti di ogni materia prima.

Così come per l'energia allo stesso modo per i derivati del petrolio, del metano.

Il popolo insorge contro la Politica nazionale per una condizione economica divenuta insostenibile, ne attribuisce colpe, incapacità, inadeguatezza, in tutte quelle occasioni nelle quali si vede intaccare quel misero tozzo di pane concessogli da ormai decenni, ma sul quale basa il proprio sostentamento e la propria sussistenza.

Però a votare votano loro, e coloro che non vanno ma che avrebbero potuto fare la differenza in un ipotesi di cambiamento, insorgono alla stessa maniera dei primi anche se con meno diritto, poiché la differenza è che i primi non sono rimasti sul divano come i secondi, pensando «che tanto non cambierà niente in questo Paese».

Ebbene è così.

Effettivamente è tutto identico da quasi un secolo e nulla cambierà se si continuerà ad agire così come si ha sempre agito, se si continuerà a fare ciò che si ha sempre fatto, se si continuerà a demandare a terzi le redini di un cambiamento, ma soprattutto se non si ragionerà ad una nuova agenda politica 2022-2050, all'interno della quale siano focalizzati vantaggi e svantaggi di una nazione, punti di forza e di debolezza, potenzialità e quindi obiettivi in chiave futuristica, in un ottica pionieristica, di sviluppo sociale prima che economica, secondo una visione attualizzata che alla base abbia conoscenza e consapevolezza di se stessi, di quel che può fare un Paese che sta nel cuore geografico del Mediterraneo e dell'Europa e che vuole essere centro e cuore pulsante anche di alcuni settori economici, partendo essenzialmente da ciò che ci ha sempre caratterizzati e distinti nella storia.

Sino ad oggi siamo stati cittadini di un Paese che ha svenduto e demandato tutto alle altre nazioni, mentre noi distrattamente non ci accorgevamo delle leggi che cambiavano, del Made in Italy non più Italy, dei prodotti bio non più bio, del 100% italiano in etichetta e meno nel contenuto, del come fosse più remunerativo produrre altrove per poi importare. La globalizzazione ha evaso i confini, spezzato le catene delle diversità e per quanto ci sia stata una contaminazione fra popoli ognuno di questi ne ha conservato caratteristiche e peculiarità, sfruttandole a proprio vantaggio e spesso a svantaggio di altri.

Questo è certamente il caso delle nazioni sviluppate che non solo hanno saputo identificare le risorse dei popoli sottosviluppati, ma hanno anche saputo coglierle e farle loro ottenendone vantaggio. Una rottura dei confini quella della globalità che per quanto possa esser ritenuto fattore evolutivo in realtà ne ha accentuato e rimarcato le diversità, evidenziandole a vantaggio di pochi e discapito di molti.

Ma le scuole non hanno più scolari e la storia non ha nulla da insegnare a chi non studia, a chi non ha memoria. Oggi ci indigniamo di fronte a questioni da lungo tempo evidenti ma che abbiamo consapevolmente evitato, sino al tracollo, sino a conoscerne il fondo del contenitore, un contenitore che fa paura quando non ha più nulla da offrire. E' così che si presenta il modello italiano, vuoto di prospettive future, mentre quello sardo appare addirittura inqualificabile.

 

Un Paese straordinario dai progetti ordinari

 

L'Italia con la sua morfologia ci consegna un messaggio inconfondibile.

La sua forma a stivale vuole indicarci che per attraversarla nei suoi milleduecento chilometri dobbiamo indossare scarpe forti, meglio uno stivale comodo, capace di superare anche le condizioni più avverse. Se poi decidessimo di passare per le sue grandi isole, dobbiamo essere abili navigatori e saperci adattare ad ogni circostanza. Come dire, sarebbe come se all'improvviso decidessimo di seguire una linea retta che passi per l'Austria, la Slovenia, la Croazia, la Bosnia Erzegovina, il Montenegro, l'Albania, poi tuffarci in mare circumnavigare la Grecia e risalire per la stessa lunghezza dello stivale.

Ebbene sì, l'Italia, in ogni sua regione ci mostra tutta la sua grande bellezza, contenuta nella varietà dei suoi paesaggi, nella complessità dei suoi popoli, nella diversità delle sue tradizioni. Un Paese che nella sua totale essenza ci mostra quanto non sia possibile l'applicazione di un modello di sviluppo calato da Bruxelles, che calzi in egual modo su ciascuno dei suoi territori, che già dai singoli linguaggi, manifestano molteplici e singolari configurazioni, ciascuna delle quali definisce un preciso carattere identitario di tipo eterogeneo. Alcune conclusioni possono essere immediatamente prodotte, rispettivamente a determinati settori produttivi, e ci conducono ad una verità sacrosanta, per esempio per quanto riguarda la PAC.

La PAC disattende tutti i suoi obiettivi.

La Politica Agricola Comunitaria rappresenta infatti l'insieme delle regole che ha inteso darsi l'Unione europea, fin dalla sua nascita, riconoscendo la centralità del comparto agricolo per uno sviluppo equo e stabile dei Paesi membri.

La PAC, ai sensi dell'articolo 39 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea, persegue alcuni obiettivi:

  • Assicurare un tenore di vita equo alla popolazione agricola;

  • Stabilizzare i mercati;

  • Garantire la sicurezza degli approvvigionamenti;

  • Assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori;

    Tutti questi obiettivi al giorno d'oggi risultano essere totalmente inattendibili. Lo scoppio della guerra ha infatti fatto scaturire non solo una guerra armata ma anche una guerra commerciale. Non si ha più alcuna sicurezza sull'approvvigionamento di materie prime quali (grano, mais, cereali, etc), e quando possibile i prezzi non sono per niente ragionevoli.

    ANSA ci comunica come l'analisi dell'associazione artigiana abbia stimato che l'aumento dei prezzi alle materie prime rischia di costare oltre 557 milioni di euro alle PMI sarde, che a livello provinciale su base annua significa:

  • 194 milioni Nord Sardegna

  • 150 milioni di euro Cagliari

  • 109 milioni Sud Sardegna

  • 76 milioni di euro Nuoro

  • 48 milioni di euro Oristano

    oppure ci comunica come secondo l'analisi dell'ufficio studi Confartigianato Imprese Sardegna, su dati del GME, rispetto al 2021 un molino che utilizza quasi 1,5 milioni di kWh/anno, potrebbe subire un aumento anche del 220%, passando da 131 a 420 mila euro di costi mentre un panificio, con un consumo medio di 150mila kwh, potrebbe patire un aumento anche del 145%, passando da quasi 21mila a oltre 51mila euro di costi.

    Inoltre confrontando le fatture di acquisto di questo inizio anno con quelle dell'anno scorso, si nota come in media le farine di grano tenero per panificazione siano cresciute del 25% mentre la semola di grano duro del 60%.

    Quello della panificazione sarda è un settore fondamentale per l'alimentare isolano. Sempre secondo l'analisi dell'Ufficio Studi di Confartigianato Imprese Sardegna, su dati ISTAT ogni giorno si sfornano oltre 100mila tonnellate di pane fresco per oltre 800 i tipi di prodotto. Per ciò che riguarda i consumi, sono 730.510 famiglie sarde che in media spendono ogni mese circa 21 euro per acquistare civraxiu, moddizzosu, pane carasau, etc. Partendo da questo dato è possibile stimare che in media la spesa annua sostenuta da tutte le famiglie dell'Isola per l'acquisto di pane ammonta a 186 milioni di euro.

Gli aumenti dei costi energetici, (Luce e Gas -Dicembre 2021- rispettivamente del 32,9% e 28,8% dati ISTAT), aggiunti a quelli del grano e delle materie prime, però, solo in minima parte hanno traslato la loro azione sui prodotti al consumo che, quindi, hanno continuano a registrare variazioni dei prezzi molto inferiori all'inflazione media e in linea all'inflazione alimentare.

In questo stato di profonda crisi sociale ed economica, che intacca il lavoro delle istituzioni, sociali, politiche ed economiche, sino a paralizzarle, ci si chiede come intendano procedere ai vertici dell'UE.

 

Effetti della modernità su ecosistemi rurali

 

Bevilacqua diceva: «l'Italia è stata caratterizzata dalla formazione di sistemi agrari estremamente diversificati, frutto della storia in cui città e villaggi hanno plasmato la natura».

Pertanto, come prima cosa è fondamentale comprendere quanto nelle diversità culturali dell'Italia sia necessario delineare ogni condizione di contesto. Analizzare le componenti del sistema socio-ambientale, quindi dimensioni delle popolazioni, il rapporto dei paesi con i loro territori, l'utilizzo delle risorse territoriali, ci aiutano a comprendere l'integrità di ogni singolo sistema agrario.

La pluralità di ogni territorio e popolazione conduce a bisogni ed interessi differenti, e dunque ad una domanda differente ed una politica ineguale.

La modernità, gli effetti della globalizzazione, le esigenze di un mercato sempre più esigente, dai tempi ed i bisogni sempre più restrittivi, ne hanno modificato facendo evolvere o involvere ciascuno di questi singoli sistemi. La concretizzazione di questo processo trasformista ha potuto realizzarsi nel 1975 con la costituzione della PAC, che ne ha stravolto ogni singolo sistema, generando un appiattimento ed un livellamento prima di tutto antropico, quindi ambientale e poi alimentare.

Il cambiamento del territorio durante il tempo è figlio degli insediamenti umani, che a loro volta si comportano in funzione delle convenienze del momento, delle imposizioni legislative, delle politiche comunitarie. Per fare un esempio: il sottobosco che non può essere pascolato, una estrema limitazione al taglio delle piante, fanno si che la natura si prenda il proprio spazio, e questa assenza dell'uomo può generare come abbiamo assistito nel Montiferru ad una perdita del controllo su essa; la natura si trasforma in una bomba ad orologeria, e l'uomo può fare poco anche con i grossi mezzi aerei, quando la potenza di fuoco è talmente alta che l'acqua evapora appena si interfaccia con le altissime fonti di calore

Non si può pertanto pensare ad una politica che considera una natura unica per tutti.

Nel comprendere meglio quanto la PAC abbia inciso sui territori, sulla popolazione, pensiamo ad esempio alla suddivisione che è avvenuta in alcune regioni. Le tre toscane, la cinque sicilie, le tre calabrie, sono dimostrazione di come questo periodo moderno con la PAC, abbia mutato l'organizzazione agraria verso una diversificazione dei territori, che si relazionano con bisogni ed esigenze del mercato globale, con un sistema economico globale, generando una modifica dei rapporti a livello locale. Dalle colline toscane a mezzadria, passando per gli appennini in una comunità rurale-silvo-pastorale, fino a giungere nella maremma con il latifondo, la cerealicoltura estensiva e la pastorizia transumante.

Se i pastori moderni avessero preso dal pastore antico i caratteri più diffusi del sardo, non solo quelli negativi, quali il sentirsi inferiori, l'essere permalosi, il sentirsi più sfortunati di altri, oppure il “dente per dente”, ma avessero letto un libro durante il pascolo, anziché trascorrere quel determinato tempo a pubblicare fesserie sui social, non dico di leggere Platone, ma leggere Le Lannou, Ortu, Meloni, Angioni, sostanzialmente dedicare del tempo alla lettura istruttiva, come facevano i pastori precedenti, avrebbero certamente compreso come il sistema agropastorale tradizionale sardo si è trasformato in un sistema agropastorale estensivo. Le cause di questa repentina trasformazione non sono certamente da imputare ai pastori, bensì al processo di globalizzazione, all'economia di importazione, che si era già instaurata seppure in una forma ancora incompresa.

É tra gli anni 50-70 infatti, con la modernizzazione, che scompaiono le coltivazioni di orzo, grano, mais e leguminose. L'abbandono delle campagne lascia spazio ad un progressivo sviluppo dei boschi. É nello stesso periodo che la crescita esponenziale della domanda di latte ovino per la produzione del pecorino romano, porta i pastori sardi ad una espansione zootecnica e quindi agraria, a totale discapito dell'agricoltura. Molti agricoltori si trasformano in allevatori, altri scelgono di emigrare in altre regioni d'Italia, acquistano grosse estensioni di terra e diventano produttori di lette ovino. La PAC era già in vigore dal 1975, nel 1980 in Sardegna si contavano 74 mila ettari di vigneti; nel 1990 in linea con i processi di trasformazione agraria, l'agricoltura veniva sostituita dall'allevamento, in Sardegna si arrivò a contare un espianto ed un abbandono di vigneti pari a 35 mila ettari, dei quali il 50% avvenne grazie al beneficio delle sovvenzioni UE per l’estirpazione. Così una misura comunitaria varata per fronteggiare la sovrapproduzione di vino a livello europeo, in Sardegna, ha avuto l’effetto di ridurre drasticamente la viticoltura, già in seria difficoltà. Nel giro di sedici anni infatti, dal 1980 al 1996 sono scomparsi 22 mila ettari di vigneti, in cambio di contributi per circa 200 miliardi delle vecchie lire.

Sempre tra il 1970 ed il 1990, vi è una crescita esponenziale della domanda del Pecorino romano, in un monomercato quello degli USA, dunque una crescita esponenziale dell'industria lattero-casearia, che genererà una dipendenza degli allevatori al prezzo del latte e dove il pastore si trasformerà da allevatore, produttore e commerciante, al ridursi all'essere esclusivamente un mungitore.

Questa condizione ha reso gli allevatori sardi sempre più dipendenti all'oscillazione del prezzo del latte, ed ormai fossilizzati su un sistema di produttività pro capite, hanno dovuto intervenire sull'intero gregge apportando modifiche genetiche, investendo sui becchi e sul carattere nutrizionale apportato al gregge. Nella sostanza, se prima gli allevatori erano dipendenti dal prezzo del latte, oggi lo sono diventati anche dei mangimi, ormai provenienti per la quasi totalità dall'estero. Se poi pensiamo al cambiamento climatico ed alle stagioni che hanno subìto un netto squilibro, anche l'apporto foraggero proveniente dalle aree più fertili della Sardegna, (campidano di Cagliari e di Oristano), verso le aree più collinari e montuose, è evidente come ogni singolo allevatore sia divenuto schiavo di un sistema accuratamente progettato e pianificato.

Questa dipendenza totalitaria che affligge gli allevatori, li ha condotti ad avere più costi che ricavi, e pertanto a dover dipendere dall'unica fonte di sostentamento: i contributi comunitari dell'UE previsti nella PAC.

 

Dalla schiavitù commerciale

 

Certamente, i pastori debbono comprendere che la violazione del coefficiente u.b.a. in rapporto ai terreni agricoli di cui si dispone, è una condizione che anche se inizialmente ha portato ad un maggior introito ed alla generazione di maggiori utili, finalmente si è dimostrata essere una leva che a lungo andare ha fatto esplodere il mercato, trasformandosi in una arma controproducente.

Partire pertanto dalla condizione di rispetto degli u.b.a. in rapporto ai terreni di cui si dispone, porterà alla riduzione delle estensioni di terreno da destinare ad erbai, ma soprattutto alla riduzione della domanda di mangimi provenienti per la totalità dall'estero. La prima reazione del mercato sarà quella di un ri-equilibro dei prezzi delle materie alimentari ovino-caprino ed in secondo luogo un ri- equilibrio del mercato delle carni.

Così facendo, qualora tale previsione si avverasse, i pastori si troverebbero ad aver più pascolo a disposizione, meno ore giornaliere da prestare all'azienda e quindi più tempo a disposizione per loro stessi. Questo tempo ritrovato, sarà per loro prezioso in un ottica di ri-scrittura delle strategie aziendali, verso un passaggio che conduca alla multifunzionalità aziendale, ovvero al costruzione di una figura che sino ad oggi si era persa, quella del pastore non più conferitore, ma quella del pastore produttore e commerciante.

Ne gioverebbero anche in termini di ricavato di nuovo pascolo, che potrebbe essere utilizzato per diversificare i prodotti dell'agricoltura.

Alcuni dati a testimonianza:

Nell'ultima settimana di Dicembre 2021 un agnello IGP a peso vivo, veniva pagato 2,78€/Kg, mentre il rapporto di trasparenza agnello di Sardegna igp (CONTAS), afferma che in termini di fatturato, il 2021 è stato il migliore degli ultimi 20 anni, con un fatturato che tocca il +9%, contro il +6% del 2020.

Tra i 2020 ed il 2022 il costo del mais è salito del 62%, infatti si è passati dai 25 euro/quintale ai 40 euro/quintale; sempre tra il 2020 ed il 2022 il costo del concime è salito del 53%, infatti si è passati dai 40 euro ai 75 euro; tra il lockdown 2020 ed il 2022 il gasolio agricolo è aumentato del 70%, passando dai 0,5 euro/litro ai 1,7€/litro.

 

All'autodeterminazione produttiva

 

Alla luce del percorso di ricostruzione storica dell'agricoltura e dell'allevamento in Sardegna, possiamo utilizzare quanto di negativo abbiamo evidenziato e tramutarlo in elementi positivi di rigenerazione. La condizione di debolezza economica, di totale sudditanza e ricattabilità, può sciogliersi se si decidesse di ribaltare insieme i rapporti di potere. Che il futuro della Sardegna debba passare per la sua autodeterminazione sotto l'aspetto agroalimentare ed energetico è ormai fuori dubbio.

Nei decenni, abbiamo iniziato a togliere viti perché vi era qualcuno che ci diceva di farlo, abbiamo iniziato a coltivare barbabietole da zucchero perché vi era qualcuno che ci diceva di farlo, abbiamo scelto modelli industriali inquinanti perché qualcuno ci ha detto che saremmo usciti da una condizione di povertà ed avremmo sconfitto il fenomeno dello spopolamento del centro Sardegna, abbiamo lasciato terreni incolti perché qualcuno ci pagava per non produrre. Tutto quello che stiamo vivendo è essenzialmente figlio delle nostre azioni nel lungo periodo, che anche se tardi, ci hanno reso consapevoli di come il futuro passi per le nostre mani e non per le mani di terze persone.

Le ultime elezioni Regionali sono un'ulteriore testimonianza di come il sardo abbia cercato la salvezza negli altri piuttosto che in sé stesso, per “ 1 euro + iva “ che non ha certo cambiato le sorti del settore trainante di un'isola. L'elezione di un Presidente miseramente venduto al Nord dei ricchi industriali, che ha trascorso il suo tempo ad occuparsi di poltrone piuttosto che dei problemi dei sardi, ed in ultimo -grazie a delle leggi regionali- ha fatto della Sardegna la più grande fucina di canapa sativa legale ad unico vantaggio di Piemonte, Veneto e Lombardia, sono un chiaro e lampante esempio di sudditanza.

I sardi comprendano che non si può più rimandare a domani la loro autodeterminazione.

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La Sardegna ed i sardi chiedano immediatamente ai loro politici un temporeggiamento per quanto riguarda l'utilizzo dei fondi del PNRR. Non abbiano fretta di spenderli, non siamo pronti e non possiamo permetterci di sperperarli. Pensare che questi debbano essere spesi in una determinata finestra di tempo, è pura follia. Si chieda come prima cosa un intervento sotto questo aspetto, dopo di che si inizi a pianificare per una agenda 2050 per la Sardegna, verso un' autodeterminazione energetica ed alimentare. Valorizzare le unicità sarde ed ogni sua preziosa risorsa, puntando sulla qualità, raggiungendo il soddisfacimento del proprio fabbisogno prima, e solo poi pensare ad una gestione dell'esubero in chiave di profitto.

 

Un'ultima ma necessaria postilla.

Quanto ho espresso è frutto del mio amore per la Sardegna ma, soprattutto, dell'attenzione e della competenza maturata nei settori citati. La mia famiglia produce prodotti agricoli (grano, orzo, carciofi e, in passato, barbabietole da zucchero) da cinquant'anni e alleva, da anni, ovini e bovini. 

Io stesso produco vino da anni e ho scritto un progetto sulla multifunzionalità agricola poi finanziato tramite l'Unione Europea. 

Ho seguito un corso regionale di 130 ore sulla mediazione dell'agrifood, cui la Regione Sardegna non ha mai fornito le certificazioni spendibili in Europa. 

Parto, pertanto, da un concetto fondamentale ed imprescindibile che è quello della conoscenza. 

La stessa conoscenza che può portarci, se lo vogliamo, verso un reale progetto di autodeterminazione. 

 


*ALBERTO MARCEDDU

Laureato in Ingegneria Meccanica all’Università di Cagliari dove svolge per un mandato rappresentanza studentesca. Vincitore di una borsa Erasmus studia e vive per un anno accademico in Spagna all’Universidad de León. Assistente Tecnico di Laboratorio presso l’Istituto Superiore Alessandro Volta di Nuoro. Già membro nazionale dell’Associazione Italiana Giovani per l’UNESCO e di altre associazioni sul territorio regionale. Nel 2016 fonda il progetto culturale Teatrando a Corte