Di Emiliano Deiana


E' una storia che va raccontata. E dalle storie non si scappa. Dalle storie come questa, di una crudezza di carne macellata. Un paese, uno di quelli della Sardegna più nascosta e segreta. Un inverno che pare non finire più tanto è lungo e freddo. Le vie deserte, del paese.

Le case fatte di blocchi squadrati di granito. Le vie strette che si intersecano, i vicoli, l'immenso silenzio gelido di questi paesi. Il cielo, là in alto. Oltre le sopraelevazioni di case senza intonaci. Le finestre bucate sono occhi che ti scrutano e le persiane delle case abbandonate sbattono come palpebre, nel vuoto. Una donna, la sua bambina di pochissimi mesi.

Un'auto che se ne torna a casa, piena del tepore dei loro fiati. Un'immagine di una normalità che sfianca, un leggero pallore sul volto della donna. Essere madre sfianca, sfianca l'allattamento, la tensione, la paura per ogni respiro di quella piccola vita. Il calore dei fiati, ricordatevene. Il sentire di madre, il sentire di figlia. Più in alto, lassù, il cielo livido d'inverno.

Una macchina persa, nel dedalo delle strade del paese. Poco lontano, casa. Una macchina rossa. Il caldo della casa, il gelo dentro il cuore. Bisogna solo alzare una serranda, mettere la macchina dentro. Un gesto che è la chiusura di migliaia di giorni: uguali l'uno all'altro.

La tensione lasciata a marcire nel pozzo segreto dove tutto è silenzio. Dove una donna nasconde, anche dietro sorrisi d'occasione, tutto il più terribile dolore.

Sente respirare la figlia, mentre scende piano dalla macchina e chiude la portiera. Un odore che è una presenza, la sente come una scossa. Ancora uno sguardo alla piccola prima di chiudere la grande porta del garage. Prende a batterle, il cuore al ritmo sincronico del cuore di figlia. Il calore dei fiati, ancora. E però si fa più forte l'odore come di cinghiale, di bestia. Posa per terra la piccola, prima di chiudere l'altra portiera. E sente i passi che vengono veloci, non fa in tempo ad urlare che le sono addosso. La tramortiscono, con un colpo feroce alla nuca. Le ginocchia si piegano, ma non lo sguardo che cerca la piccola lì in terra. Occhi che si cercano, occhi di madre, occhi di cerva.

Poi un velo grigio le scende sulle palpebre, un pugno di neve dentro le orecchie. Le sono addosso ancora, orribili nella loro ferocia bestiale. Rispondono a un ordine animale, si agita la donna sotto il loro corpi. Sente il gelo delle mattonelle e si ridesta sperando che sia ancora un sogno di quelli che la tormentano da molti mesi.
No, non è così. L'odore di cinghiale è insopportabile, cinghiale mischiato a terra e agli umori acidi di ascelle putride. Odore di lentischio e asfodelo, odore di fuoco che brucia rami verdi, di leccio e corbezzolo. Si agita, di sotto, la donna. Sguscia come un'anguilla a cercare la figlia, mille pensieri le affollano la testa: non per la sua vita se la mangia quel residuo di paura, ma per quella vita che dorme di fianco a lei.

Uccidetemi! Uccidete me, pensa la donna nel pieno della più appassionata e consapevole lucidità. Uccidetemi! Ma lasciate la creatura, tutto il frutto del mio cuore che sanguina. Da mesi sanguina e in pochi se ne accorgono perché c'è un sorriso per tutti, una carezza ancora anche quando tutto è così difficile. Le legano i piedi, con il nastro isolante. Come un capretto le legano i piedi e le mani dietro la schiena. Non parlano le bestie, grugniscono ordini uno all'altro. Le passano l'adesivo sulla bocca e sul naso. Uno, due giri. Tre giri a strapparle i capelli. Ed inizia il tormento.

Il fiato caldo si fa fosforo e neve, la lingua tenta di aprire un varco nel nastro adesivo ma vi si incolla, ed è atroce. Prova a mordere, e morde la lingua, mentre le mani legate dietro la schiena le impediscono qualsiasi movimento, qualsiasi mossa.

Ma non per sé ha paura, non sente più il fiato né il cuore di bimba. Ed è questo il suo tormento, il suo atroce tormento.

Uccidete me, maledetti! Lasciate quel fiore di campo a vivere nel più puro prato della vita. Ed arriva, nonostante la ferocia ed il dolore l'aroma di figlia appena lavata, gli oli aromatici che ne hanno profumato il piccolo corpo. Sente le forze andarsene, il lancinante dolore della lingua che sanguina, il sapore dolciastro del sangue. Il suo sangue.

Sente che la sollevano e la buttano dentro la macchina, chiudono il cofano con un tonfo sordo. Morire così, col dubbio atroce di non morire sola. Un'azione di una brutalità unica, peggio della stessa - terribile - uccisione.

Morire nel tormento e nel dubbio. Morire di spavento, prima ancora che soffocata.

Poi, quando sta cedendo alla morte sente distinto il rumore della porta del garage che si chiude e corsa di passi per la via. Se ne sono andati, maledetti! Poi sente piano, quasi dolcemente, la musica incantata del pianto di figlia. Sente il calore del fiato che giunge dentro la prigione, il cuore che ricomincia a battere al ritmo di quello della figlia.
E adesso anche morire fa meno male.


Emiliano Deiana

Nato il primo aprile 1974 vive a Bortigiadas. Cofondatore della Libreria Bardamù di Tempio Pausania. È stato Sindaco di Bortigiadas per 15 anni, attualmente è Presidente di ANCI Sardegna. Ha pubblicato nel 2012 il libro di racconti satirici  'Bar Sport Democratico', Ethos Edizioni. 
Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo, 'La morte si nasconde negli orologi', Maxottantottoedizioni.

(Foto ©Andrea Deiana) 


 Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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