di EMILIANO DEIANA*

Non si dovrebbe mai scrivere di sé. 

È una vecchia regola buona, naturalmente, per essere infranta. A maggio è uscito il mio primo romanzo “La morte si nasconde negli orologi” edito dalla sarda-sardissima Maxottantottoedizioni. Sono andato molto in giro a presentarlo e, in ogni occasione, dichiaravo un mio limite e un personale “fallimento”. Quel libro, quella storia avrei voluto scriverla - se avessi avuto tutte le parole a disposizione e un’abilità diversa - nella mia lingua, il gallurese o in sardo.

 Pensavo (e penso) che la mia sia una storia che, benché ambientata in un’America onirica, sia totalmente  e pienamente sarda: la Sardegna delle piccole comunità rurali, dove le persone si conoscono per il soprannome, per un difetto fisico, per un difetto morale degli avi. 

Una Sardegna dove violenze inenarrabili vengono nascoste nel chiuso delle case e nello strazio della dimenticanza. 

Io, in questa storia, ho cercato di metterci una musica, di usare una lingua - in italiano - che suonasse (in qualche modo) biblica e solenne, che avesse un ritmo, un timbro, una melodia: una specie di jazz degli albori, mischiato con un poco di blues. 

Poi, perché le cose accadono per caso, un’amica mi ha mandato una traduzione del mio romanzo fatta dal padre in lingua sardo-campidanese (non sono autorizzato a citare l’autore poichè non so - perché non me ne occupo - se il lavoro editoriale alla fine si concretizzerà) e in quella versione mi era sembrato di scorgerci dei ritmi, delle melodie, dei suoni differenti rispetto al testo originale: musiche mediterranee, arabeggianti, con venature ebraiche e certe sfasature del banglamas nel rebetico, e gli echi lontani di un muezzin. Poi ho pregato l’amico ed editore Massimo Dessena di valutare se fosse possibile chiedere a Nanni Falconi - il più straordinario scrittore in lingua sarda - di farla (se ne avesse avuto il tempo e la voglia) un’altra traduzione perché, davvero, volevo sentire se scaturiva, dalle sue parole, un’altra musica ancora diversa e catapultasse la storia in altre latitudini trascinata, magari, dagli ottoni di una banda macedone mischiati allo sfiato delle launeddas, dai vìolini scordati e ansimasse come la littorina lungo i binari scomposti di un delirio notturno e trasognato. Non riesco a spiegarmi bene con le mie parole e devo procedere con degli esempi per poi dispiegare, ancora, la forma del ragionamento.

Scrivo nel romanzo: “La bambina si chiama Elizabeth, Elizabeth Craig e fa bolle di sapone mentre il treno si mangia il residuo della campagna”. Nella prima versione si traduce così: “A sa pipia ddi nanta Elizabeth, Elizabeth Craig, e fait bubullucas de saboni in su fratantis chi su trenu si papat s’arrestu de su sartu”. Mentre Nanni Falconi la “trasfigura” in questa maniera: “Sa piseddutza si narat Elizabeth, Elizabeth Craig e est fatende bolloncas de sabone interis chi su trenu si mànigat sa romasiza de su saltu”.La sentite, vero?, la Musica: “l’edificio del sogno”, come la chiamava CélineMa andiamo avanti. 

(Foto ©Gianfranco Delussu)

Conoscete lo straordinario libro di Raymond QueneauLes fleures blue” nella stratosferica traduzione di Italo CalvinoCalvino scrisse su “I fiori blu”: “Appena presi a leggere il romanzo, pensai subito: «È intraducibile!» e il piacere continuo della lettura non poteva separarsi dalla preoccupazione editoriale di prevedere cosa avrebbe reso questo testo in una traduzione dove non solo i giochi di parole sarebbero stati necessariamente elusi o appiattiti e il tessuto di intenzioni allusioni ammicchi si sarebbe infeltrito, ma anche il piglio ora scoppiettante ora svagato si sarebbe intorpidito. (...) il libro cercava di coinvolgermi nei suoi problemi, mi tirava per il lembo della giacca, mi chiedeva di non abbandonarlo alla sua sorte, e nello stesso tempo mi lanciava una sfida, mi provocava a un duello tutto finte e colpi di sorpresa. Fu così che mi decisi a provare”. Ma andiamo alla prima pagina del romanzo di Queneau senza - ovviamente - paragonare il testo dell’autore francese a nulla e a nessuno (meno che mai a chi scrive, qui), ma restando dentro i problemi (e le possibilità) di una traduzione. 

Sur l’horizon se dessinaient les silhouettes molles de Romains fatigués, de Sarrasins de Corinthe, de Francs anciens, d’Alains seules. Quelques Normands buvaient du calva”. Traduce Calvino: Si disegnavano all’orizzonte le sagome sfatte di qualche diritto Romano, gran Saraceno, vecchio Franco, ignoto Vandalo. I Normanni bevevano Calvados. 

Non è fantastico? È più straordinario Queneau o Calvino? Non sono due porte che si aprono sullo stesso silenzio grazie alle infinite possibilità della lingua? Ora, sul mio testo scritto in italiano e tradotto da Nanni Falconi in sardo, si è aperta una discussione. Tralascio gli eccessi, le offese che pure ci sono state. Non mi occupo, nemmeno, delle diatribe - spesso ombelicali, al netto di chi ne parla seriamente e civilmente - sulla LSC e le varianti del sardo. Sono affari degli esperti e dei tecnici. Discutano, trovino una soluzione: per me va bene - letterariamente - qualunque cosa decidano o abbiano deciso. Non mi sfugge, nemmeno, la necessità - forse - di “addomesticare” la lingua sotto la burocrazia di uno standard al quale piegare gli atti ufficiali, le delibere, le leggi, le norme, i regolamenti. 

Ma tutto questo cosa c’entra con la letteratura e con una traduzione letteraria e per questo poetica? 

Perché, in Sardegna, si fa la guerra a chi, con un’operazione di politica editoriale prova a fare qualcosa per la cultura sarda e la sua lingua che rischia di andare perduta irrimediabilmente? Perché intentare processi a un editore emergente come Massimo Dessena che ha fatto un’operazione coi propri soldi, senza attendere la tetta di Mamma Regione e la politica asfittica del “contributo”? Perché si insulta uno straordinario scrittore (e traduttore) come Nanni Falconi chiamandolo “traditore”? Perché? Perché, senza nemmeno aver letto né l’originale né la traduzione (che sia detto per inciso, rispetta tutte le regole sintattiche e grammaticali della lingua sarda), si usa l’arma più in voga, in Sardegna: il pregiudizio? 

Se volessimo scomodare Salvatore Satta diremmo che questo è “il giorno del pregiudizio”, il giorno nel quale si vorrebbero piegare la lingua e la letteratura, le sue mille sfumature, i suoi milioni di suoni e di canti e di metamorfosi ai decreti della normalizzazione. Eliseo Spiga nel suo “Capezzoli di pietra” scrive: “Ormai il mondo era uno. Il mondo degli incubi di Caligola. Un’idea. Una legge. Una lingua. Un’eresia abrasa. Un’umanità indistinta. Una coscienza frollata. Un nuragico bruciato. Un barbaricino atrofizzato. Un’atmosfera lattea. Una natura atterrita. Un paesaggio spianato”. A noi, invece, oggi interessa solo capire come un testo letterario possa brillare di altri suoni nascosti sotto la macchia crepitante di un’altra lingua intrisa di salmastro e di elicriso. 

Perché davvero “tradurre è il vero modo di leggere un testo”. Noi, per fortuna, abbiamo cose più belle e utili da fare. Soprattutto perché pensiamo che ogni forma di diversità - anche nella lingua - costituisca una ricchezza inestimabile per tutti. Perché non si può ascoltare, partendo da filamenti di jazz, anche il blues, la morna, il tango, il rebetico, le fanfare d’Oriente, il banglamas e i lamenti lontani di un muezzin? Perché no? 

C’è chi, come me, ama la diversità (e la complessità) come si ama una “bolloncas” o “bubullucas” di sapone che si solleva in aria, leggera, ed esplode in mille vertigini d’immenso. 

Emiliano Deiana 

Nato il primo aprile 1974 vive a Bortigiadas. Cofondatore della Libreria Bardamù di Tempio Pausania. È stato Sindaco di Bortigiadas per 15 anni, attualmente è Presidente di ANCI Sardegna. Ha pubblicato nel 2012 il libro di racconti satirici  'Bar Sport Democratico', Ethos Edizioni. 
Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo, 'La morte si nasconde negli orologi', Maxottantottoedizioni.

(Foto ©Andrea Deiana) 

(Foto copertina ©Gianfranco Delussu)


 Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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