Di MARGHERITA ZURRU

Ma sù, che qua da voi (in Sardegna, n.d.r.) comandano le donne, non starà un po’ esagerando, avvocato?” Vorrei replicare. Sulla favola del matriarcato sardo e sulla vocale sbagliata – l’italiano non è un’opinione, si dice avvocata, femminile singolare – ma stavolta non raccolgo, sono qui per parlare d’altro. 

Lui solleva un attimo lo sguardo su di me, ignorando la persona che mi siede accanto, e misura la mia reazione alla provocazione. Poi lo posa di nuovo, attraverso le lenti da presbite, sull’atto urgente del quale evidentemente non ha letto neanche una riga. Lo sfoglia rapidamente, poi lo richiude. Finalmente le rivolge la parola. “Vabbè, signora, mi racconti lei. Era davvero così cattivo suo marito?”. Lui è il giudice continentale cui spettava, fino a pochi anni fa, di occuparsi della materia “famiglia” nella sezione civile di un piccolo tribunale sardo. Uno come tanti. 

Famiglia è il termine nel quale, secondo l’ordinamento, trovano posto i fascicoli che riguardano i procedimenti giudiziali di separazione, divorzio, e affidamento dei minori. Nei tribunali di provincia è spesso lo stesso giudice a occuparsi anche di lavoro e qualche volta di impresa. Ciò significa che magari prima di te è entrato un licenziamento e dopo di te si discuterà, perché no, di una lite fra soci. Dieci minuti di udienza - cinque noi e cinque la controparte - per riassumere in poche frasi efficaci tutti i perché di una scelta difficilissima. Le donne che escono da una storia di violenza intrafamiliare, soprattutto quando hanno dei figli, devono passare da qui.

Frequentemente, infatti, è sull’affidamento dei minori che si scatena la frustrazione dell’uomo violento che è stato lasciato. Querele incrociate, fantasiose perizie di parte, accuse di alienazione parentale.

È la violenza che perdura nella distanza fisica, che si nutre dei ritardi del sistema giudiziario e dell’incompetenza diffusa fra chi è posto a decidere.

Ed è in questa stanza, davanti a questo giudice che non ha letto una parola del nostro ricorso, che la donna seduta accanto a me ha iniziato a parlare. E lui, il giudice, infine, a guardarla. Ha raccontato il fidanzamento, la gelosia ossessiva, il controllo su abbigliamento, cellulare, frequentazioni. Il matrimonio, l’isolamento da parenti e amici, le continue critiche su tutto, il divieto di lavorare, di avere un proprio bancomat. Le prime botte seguite dalle riconciliazioni, le nuove botteguarda cosa mi hai fatto fare”. I figli. Infine la paura per la loro incolumità, che ha vinto sull’insicurezza. La decisione di andare via nella più totale incapienza economica. L’incubo che continua. I pedinamenti, le minacce. Il centro antiviolenza.

Mentre raccontava, ha detto una frase alla quale ho ripensato spesso: “Mi ha sgretolato l’anima.”

Poi ci siamo alzate. Dall’altra parte della porta, in attesa di entrare per dire la sua, il violento. Non ha aspettato che lei uscisse, si è intrufolato sull’uscio proprio mentre passava, cercando il contatto fisico. Lei si è scostata bruscamente, l’ha fatto entrare, ed è uscita dalla stanza, sempre senza guardarlo. Quella volta è andata bene. Abbiamo ottenuto un provvedimento temporaneo che ha acconsentito al trasferimento in un’altra città. Non sempre i confini sono così netti. 

Altre volte la violenza è una nebbiolina sottile che ottenebra la mente, distruggendo piano, piano la fiducia in sé stesse.

In questi casi i lividi saranno invisibili sulla pelle, ma il percorso di consapevolezza e ricostruzione non meno tortuoso e doloroso. Spesso dura anni. Anche per questo, può essere complicato ottenere dai tribunali giustizia, protezione, libertà. Succede che non si riescano a raccontare aspetti così intimi del proprio vissuto all’estraneo che siede dall’altra parte della scrivania con in mano il tuo fascicolo, e magari non sa dissimulare la fretta o ti ascolta distrattamente; o, peggio ancora, non crede a quello che dici. 

Giovanissime, anziane, italiane, straniere, laureate, benestanti, carismatiche, sorridenti, manager, psicologhe, magistrate. Càpita anche a loro. Lo stereotipo della donna introversa e fragile, magari poco istruita, che incontra il buzzurro violento senza saperlo riconoscere, è un inganno dal quale dobbiamo liberarci. Come dall’idea che la violenza sia solo quella fisica. 

Lo racconto per questo: nessuna si senta immune. Di comune a tutte c’è solo il suono cristallino della prima risata libera, che arriva sempre, prima o poi. Quando si chiede aiuto, arriva più in fretta. Anche per questo sono qui. Se avete bisogno di un consiglio non esitate a scrivermi a questo indirizzo  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o chiamare il numero antiviolenza: 1522

 

 


MARGHERITA ZURRU  

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Nuorese, avvocata. Collabora con diversi Centri antiviolenza, è consulente legislativa al Senato. Da vent'anni vive a Roma e inventa pretesti per tornare in Sardegna.  

 Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci" 
 

© Nella foto di copertina murale realizzato per la Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne, promosso dalle associazioni culturali Quadrato Fondi ed UrbOfficina