di LAURA FOIS*

Se dovessi scrivere un pezzo per il finale di quest’anno, probabilmente sarebbe meglio consegnarlo a qualche testata, blog o post di Facebook alle 23:59 del 31 dicembre. L’ultimo minuto disponibile, l’ultimo istante di un 2020 che si è portato via dai più grandi (da Kobe Bryant a Maradona, ma la lista è lunga) ai comuni mortali. Perché mai come quest’anno la morte, la rabbia, la tristezza, la frustrazione, la perdita e la solitudine sono state così evidenti.

Quest’anno i fortunati sono stati cauti a dire anche solo “sto bene”. O meglio: “Sto ancora bene”. Mai come quest’anno l’incertezza ha governato le nostre vite. Ognuno ha perso qualcosa: salute, soldi, parenti, amici, relazioni, amore, lavoro, viaggi. Stiamo ancora elaborando un cambiamento epocale e globale. I dati peggiori ce li comunicano ogni giorno: sono aumentati i casi di depressione e di ansia, sono aumentate le chiamate ai centri anti-violenza, stanno finendo i nostri risparmi e anche la voglia di cercare lavoro, anche tra i giovani, quelli che dovrebbero prendere le redini del mondo. I dati più preoccupanti arrivano dal Sud Europa e dalla Sardegna.

Al contrario, sono aumentati i patrimoni dei manager più ricchi del pianeta, in particolare i detentori di imperi multinazionali a cui concediamo ogni giorno qualsiasi tipo di dato e la risorsa più preziosa: il nostro tempo. Così Google, Apple, Amazon, i vari social networks si fanno ricchi alle nostre spalle. Perché sono diventati indispensabili. Ed è proprio questo il punto, se davvero vogliamo imparare qualcosa da questo 2020.

Come essere indispensabili? Come diventare indipendenti? E cosa sta diventando sempre più indispensabile?

Sono domande che dovremmo porci se siamo disoccupati, liberi professionisti e aspiranti imprenditori. Ma anche manager e politici. Non solo, anche come cittadini che ogni giorno fanno una scelta anche solo andando a far la spesa. L’ennesimo schiaffo alla Sardegna lo ha dato lo Stato italiano predisponendo il “Recovery Fund”: avremo briciole, ancora una volta. Eppure i sardi hanno concesso fin troppo all’Italia: il 60% delle basi militari si trova nell’isola, e dove non ci sono servitù militari c’è lo sfruttamento delle nostre più grandi ricchezze - il suolo e il vento - ad opera di multinazionali.

E ancora, aziende, tenute e cantine, locali, negozi che fanno il fatturato più grande, non sono di proprietà di sardi ma hanno sedi e basi operative all’estero. “Sì ma almeno danno lavoro”, controbattono i vari lavoratori di queste realtà. Scusate, ma quest’affermazione non regge più. Si potrebbe essere autosufficienti con le nostre risorse naturali e dando retta ai giovani imprenditori che qui resistono, spesso in silenzio. Perché l’amore per questa terra sovrasta ogni difficoltà. Da tempi immemori la Sardegna è stata via via svenduta. L’isola è felice solo in estate poi si torna isolati più che mai, senza trasporti e rotte, aeree e navali.

In definitiva, cosa è rimasto in Sardegna, ai sardi? Per i sardi? Cosa abbiamo tra le mani, cosa possiamo fare, ognuno di noi, per non dover dipendere sempre dagli altri? Perché non provare a bastarsi, perché non ripartire da ciò che sappiamo fare? I nostri antenati erano nuragici e giganti, qui è nato Internet, qui c’è ingegno, creatività, amore per la terra e i luoghi, sole e vento, mare e montagna. È il momento di rinascere e di farsi ascoltare. 93 anni fa Grazia Deledda vinceva il Premio Nobel per la Letteratura. <<Il rimedio è in noi. Cuore, bisogna avere, null’altro>>, ci sprona così un personaggio dei suoi romanzi, scritto tantissimi anni fa. Vale ancora, vale di più, oggi. Ora o mai più.


Laura Fois

Giornalista Pubblicista

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Articolo realizzato per il progetto "FocuSardegna a più voci"

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