Quarant’anni fa la tragedia di Vermicino che costò la vita al piccolo Alfredino Rampi, il bambino di sei anni inghiottito da un pozzo artesiano. L’incapacità, l’approssimazione e la scarsità di mezzi dell’apparato di sicurezza di allora non riuscirono a salvarlo. Dopo quarant’anni e quattro mesi è morta l’unica persona che tentò disperatamente di riportarlo a sua madre: Angelino Licheri. Si è spento, povero come ha sempre vissuto, in una casa di riposo di Nettuno, ucciso dalle complicazioni di un diabete che dopo avergli causato la perdita delle gambe e la quasi cecità lo costringeva su una sedia a rotelle.

Era nato a Gavoi il 20 agosto del 1944. “Ricordo che da bambini giocavamo insieme – dice al telefono Salvatore Lai, sindaco del suo paese, molto colpito dalla notizia – e ne ricordo la povertà, le difficoltà di integrazione, quell’umiltà che seppe trasformare in una enorme generosità, affidando alla volontà e all’immenso cuore un’impresa che non volle mai venisse definita eroica”.

Non gesto eroico, diceva infatti Angelino, rispondendo alle tante interviste che negli anni gli sono state rivolte, ma solo un atto di altruismo.

Si calò in quel pozzo – ricorda ancora Salvatore Lai – come se fosse il simbolo della sua difficile vita e per poter recuperare se stesso alla vita, oltre che Alfredino”.

Lavorava come fattorino per una tipografia romana, in quel 1981, e colse dai racconti di due segretarie dell’azienda le prime notizie su quanto era accaduto a Vermicino. Poi il martellamento di informazioni da radio e televisione, le paginate dei giornali, addirittura la richiesta di due ragazzini che lo conoscevano perché si rendesse disponibile a dare una mano ai soccorritori, lo convinsero a partire per Vermicino. Lui, padre di tre figli, che capiva bene il dolore che provavano i genitori del bambino nel pozzo.

Si presentò spontaneamente. Il prefetto Pastorelli, che coordinava le operazioni, dopo averci pensato a lungo autorizzò il suo intervento. Mingherlino, con una struttura ossea che gli consentiva di scendere nello strettissimo cunicolo, venne calato a testa in giù. Le carni lacerate da spuntoni di roccia, la sofferenza, il fango e il buio non lo fermarono.

Riuscì a raggiungere Alfredino, fece tre, quattro tentativi per riportarlo su, ma ogni volta gli scivolò via.

In quegli interminabili 45 minuti continuò a parlargli, ad incoraggiarlo, nonostante dal bambino provenissero solo rantoli. Alla fine non ce la fece più a resistere, anche perché le forze lo stavano abbandonando e si fece issare in superficie in mezzo ad un inferno di telecamere, giornalisti, curiosi da cui si sottrasse con decisione.

Le emozioni, le speranze, il dolore del Paese per quella disgrazia trovarono un’espressione unitaria nella presenza sul posto del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il fallimento delle operazioni di soccorso che solo la disperata azione volontaria di Angelino aveva tentato di far diventare vincenti, determinarono la decisione di costruire la prima, vera struttura di Protezione Civile d’Italia. E lui? Riprese la sua vita ripartendo dalle stesse difficoltà di prima. Non vestì mai i panni dell’eroe ma per tutti i volontari disposti al sacrificio a favore degli altri è diventato un essenziale punto di riferimento, un esempio.

“Per tutta la vita successiva – conclude Salvatore Lai – ha dimostrato che solo per gli altri divenne un eroe, ma forte della generosità nata dal cuore non seppe e non volle mai vestirne i panni”.

Chi invece sfruttò, a volte in modo indecente, quella tragedia fu la ‘scienza del dolore’. Trasmissioni televisive, giornali, inviati scesero in campo compatti per sfruttare l’ondata di paura e dolore che quella vicenda aveva prodotto per trasformare il tutto in indici di ascolto, in scoop, in copie vendute. Angelino non solo non sfruttò quel mercato, ma ne stette lontano custodendo gelosamente l’immagine di dedito agli altri che si era costruito con le sue scelte di vita.

Ottavio Olita