I Sikitikis rappresentano, senza dubbio, una bella anomalia nella storia recente della musica in Sardegna. La loro biografia racconta di una band che ha iniziato a calcare i palchi nel (neanche troppo) lontano 2000, facendosi presto notare da Max Casacci dei Subsonica, che ha pensato bene di inaugurare l’etichetta Casasonica con il loro disco d’esordio. Nel giro di poco tempo si trasferiscono a Torino, culla di tanto fermento musicale, allora come adesso, girano l'Italia in tour e partecipano ai principali eventi musicali nazionali, come Tora Tora!, Rock Tv Day e Independend Day, e incassano il premio “rivelazione dell’anno" del M.E.I.

Negli anni sono poi arrivati i nuovi album, l’incontro con "Max Stirner" Fusaroli e i tanti cambi di rotta, tanto nella produzione musicale quanto nella scelta dei canali attraverso i quali proporsi al pubblico, che li ha visti affidare interamente al web la nascita, lo sviluppo e la distribuzione (anche gratuita) di musiche e video, in netto anticipo sui tempi. Dopo cinque album, dall’esordio del 2005, e altrettanti colpi di testa, i Sikitikis, nel bene e nel male, non hanno mai smesso di stupire né tantomeno di divertirsi, a quanto pare. Oggi sono diventati grandi, tanto da decidere di inserire in organico quella chitarra, della quale avevano fatto, fino a ora, brillantemente a meno, la cui mancanza ne aveva costituito uno dei marchi di fabbrica più forti. Di questo, e tante altre belle cose, abbiamo parlato a colazione, con il frontman Alessandro “Diablo” Spedicati.

 

Voi siete i Sikitikis e venite da Cagliari. Ti senti di spiegare ai nostri lettori in poche parole cos’è stata e cos’è ora Cagliari per voi? In che modo è cambiata, e se è cambiata, musicalmente parlando, negli ultimi 15 anni?

Cagliari è cambiata moltissimo negli ultimi anni, come è cambiata la musica, il mercato e le tendenze. La musica buona e quella brutta sono sempre esistite, sotto questo aspetto non è mai cambiato niente ovunque. Quando abbiamo iniziato si suonava di più dal vivo rispetto a oggi e in parecchi locali perché il live era anche un buon mercato. I gestori dei locali si divertivano a organizzare e la gente andava a vedere i concerti semplicemente per fare vita sociale, a prescindere da chi ci fosse sul palco. Il popolo della notte si divideva tra chi andava a seguire i concerti e chi andava in discoteca. Ora le grandi discoteche non esistono più, come non esistono i locali dove si suona il rock. Oggi nei club i nuovi artisti sono i dj e Cagliari è diventata una citta dove ovunque si può trovare un djset (ride, n.d.r.), performance che, per quanto ben pagata, fa risparmiare ai locali un casino di soldi. Si spera sia solo la fase bassa di una sinusoide, in attesa che il live riguadagni appeal.

Siete consapevoli del fatto di essere la band più importante in Sardegna, di tutto il circuito estraneo alla musica cosiddetta tradizionale? Nel senso, sentite questa responsabilità?

No, perché a mio avviso non è vero. Credo che in questo momento Salmo rappresenti meglio l’attuale generazione e i numeri certificano questo fatto.

Ma quello è un altro circuito…

Vero, perché è un successo legato all’attuale mercato discografico. Ma Salmo è un artista che va molto oltre il suo genere. La sua storia, la sua produzione musicale, come la ha realizzata e come la gestisce, fanno di lui il più importante artista indipendente che ci sia mai stato in Sardegna. Se abbiamo una responsabilità, è, forse, aver rotto delle barriere, cosa che ci rende molto orgogliosi. Abbiamo dato, forse per primi, un esempio senza il quale, probabilmente, non sarebbe arrivato neanche Salmo. Preferiamo pensarci come dei pionieri. Magari non è vero, ma è bello pensarlo (ride, n.d.r.).

L’ultimo disco, Abbiamo Perso, ha portato due grosse rivoluzioni nella vostra musica: l’inserimento della chitarra e la brusca sterzata verso sonorità puramente funky, R&B e soul. Cosa è cambiato nella band per arrivare a questa mutazione?

Nel DNA dei Sikitikis la musica nera è sempre stata molto presente, insieme alla musica di matrice jamaicana, che emerge in molte metriche, specie dei primi dischi. Però, fondamentalmente, abbiamo perso. Abbiamo perso delle sovrastrutture che ci hanno permesso di liberarci dell’idea di genere e di stile. Abbiamo deciso di fare un disco pieno di elementi black e figlio di un'esigenza di stomaco. La mia scrittura negli ultimi anni si è confrontata molto con Battisti, Pino Daniele, e con il Fossati del primo periodo, e nei loro lavori, il rithm’n’blues era molto presente. Abbiamo semplicemente cercato di omaggiare quel mondo.

Sembra che l’inserimento della chitarra abbia aggiunto ma, allo stesso tempo, abbia anche tolto qualcosa al vostro sound. Avete avuto anche voi questa sensazione? Era proprio fondamentale inserirla all’interno della formazione?

La chitarra ha cambiato il suono, da un lato arricchendolo con armoniche che prima, solo con grande sforzo, riuscivamo a inserire. Il limite di dover lavorare senza la chitarra arricchiva sicuramente il suono, ma di personalità. Questo disco ha una personalità più moderata, più gentile e meno netta. Forse la chitarra non era necessaria perché nulla è necessario nella musica. Le prime settimane in sala prove, mentre facevamo girare i pezzi, ho suonato io la chitarra, più che altro per farmi seguire dagli altri, e piano piano ha iniziato a ritagliarsi una parte, soprattutto ritmica. Poi è arrivato Flavio (Flavio Secchi, il nuovo chitarrista, n.d.r.), persona bellissima e chitarrista tra i migliori in Sardegna, che ha completato il quadro e ha fatto sì che il disco venisse fuori così. Magari il prossimo sarà soltanto voce e quartetto d’archi (ride, n.d.r.).

Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalle tue dichiarazioni in merito all’indipendenza della Sardegna. Non è frequente che gruppi non palesemente schierati politicamente si abbandonino a esternazioni del genere. Tranne, forse, qualche molto velata eccezione, non avete mai inserito all’interno dei vostri pezzi allusioni all’indipendentismo. È stata una scelta voluta o non rientrava semplicemente nei vostri “target”?

A mio modo di vedere, la scrittura di una canzone ha senso se vive di due tensioni: la tensione sessuale e la tensione politica. Nel mio istinto prevale la tensione sessuale, quindi il distacco o l’attrito che si vive nelle relazioni, contesti nei quali, secondo me, viene veramente fuori l’essere umano. La canzone politica non è nelle mie corde. Ma essendo un essere pensante, non posso non avere un pensiero politico ed è più facile che questo si riverberi nella mia vita di coppia e, solo di rimando, nelle canzoni. La politica la vivo nello stile di vita. Io non riconosco l’autorità dello stato italiano, in particolare nella mia vita. Mi interessa solo quanto, di politico, entra nell’umanità di una persona, e non nella sua presa di posizione all’interno di una canzone. Mi piace confrontarmi direttamente con la politica e, nelle canzoni, per una questione di sintesi, diventa facilmente travisabile.

Negli anni avete stravolto tutto svariate volte e quasi sempre in meglio. Tranne forse per quest’ultimo album (anche se di questo vi fregherà poco). Siete stati però molto coraggiosi, decidendo di affrontare la sfida della black music. Questa volta però è mancata, a mio parere, l'originalità che aveva contraddistinto le vostre produzioni fino ad oggi, nei testi e nelle musiche. Com’è stato musicare i pezzi di questo album? Ne eravate consapevoli, prima di infilarvi in questo ginepraio?

È stato molto più semplice fare questo disco rispetto a tutti gli altri. Nei dischi precedenti abbiamo sempre avuto la velleità di voler fare qualcosa di intelligente. Questo invece è un disco ignorante. La difficoltà di fare un disco ignorante non sta nel farlo, ma nell’accettare di farlo. E nell’accettare di realizzare un disco istintivo, non ragionato e fatto solo per dimostrare quanto eravamo acuti nel comporre una rima o nell’inserire una citazione. Volevamo mettere da parte la voglia di sembrare intelligenti e ne è venuto fuori un disco di cuore. Hai presente quando sei completamene innamorato e ti senti deficiente, o quando ti trovi di fronte a un bambino a cui fai quei versi che nella vita ti renderebbero ridicolo? Ecco, Abbiamo perso è quella roba li. Accettare quella parte di noi, l’uomo che fa il bambino di fronte alla donna che ama, o che cerca di parlare la lingua del figlio di pochi mesi, è un’incredibile ammissione di debolezza e quindi una grande prova di forza. Le donne impazziscono per questa cosa (ride, n.d.r.).

Quindi abbiamo perso ha un’accezione negativa..

Ci sono due abbiamo perso. Quella della canzone, che parla di una sconfitta generazionale. Io ho 40 anni, la mia generazione è quella degli sconfitti, dei frustrati, della cocaina, dei leasing per acquistare macchine grosse, quella che è riuscita a mantenere le cose più brutte della pre-rivoluzione sessuale e a diventare, allo stesso tempo, eticamente ignobili. Una generazione completamente devastata che ha ereditato due sconfitte; quella dei nostri genitori e la nostra, per non essere riusciti a risollevarci da quella roba lì. L’altro significato è la perdita delle sovrastrutture. A me non interessa quello che pensi di me, ed è per questo che ti voglio bene (ridiamo, n.d.r.). Se mi interessasse il tuo giudizio, ti odierei.

 

Uno dei pregi di questo disco sembrerebbe essere la produzione. Non che per gli altri album non fosse valida. Ma in questo caso si avverte un lavoro più certosino, un suono molto curato. Confermate questa sensazione?

È strano. Ci abbiamo messo meno tempo a registrarlo, ma siamo arrivati alla registrazione molto più preparati. Volevamo registrare il disco in presa diretta e quindi abbiamo passato molti mesi in sala prove a suonare live. Questo ha permesso a Dario Colombo, il nostro co-produttore, di lavorare esattamente come se suonassimo dal vivo, con la certezza che dalla fonte stesse arrivando già il suono giusto. A un certo punto è bastato semplicemente suonare. Il disco era praticamente fatto. I premix suonavano già benissimo, scuri e asciutti. In missaggio è bastato mettere pochissima roba. Abbiamo lavorato più sulle compressioni parallele, sulla dinamica del suono in post-produzione, che sull’equalizzazione del suono in sè.

Avete già dei feedback relativamente al nuovo album da parte dei vostri fan storici?

I nostri fan storici ci hanno dato un bentornato. Chi ha preferito i primi album, ed era rimasto un po’ interdetto dai dischi più pop, lo ha apprezzato parecchio. Per chi era abituato alla roba più abbordabile, questo non si è sicuramente rivelato un disco ostico; hanno ritrovato il romanticismo, la sofferenza e la gioia, ricalcando una tradizione di musica italiana che i Sikitikis hanno nel DNA.

Ci sono delle band in Sardegna che vi sentite di segnalare ai lettori di Focusardegna?

A Cagliari senza dubbio gli Slim Fit, gruppo elettropop che abbiamo visto nascere e crescere; fanno della musica destrutturata, molto elettronica ma suonata, superando la forma canzone, un po’ sulla scia degli MGMT, dei Talkin Heads e di tutto quel mondo della new wave a cavallo tra i settanta e gli ottanta. C’è poi The Heart And The Void, un grande talento che da solo ti fa volare. Andando oltre Cagliari, abbiamo suonato qualche volta con i Dealma e trovo che siano un progetto molto completo, cosa che non si sentiva dagli anni '90, band con un casino di gente sul palco, percussioni, crossover; roba che mi ha fatto respirare molto le atmosfere di quando ero più giovane e c’erano i Faith No More.

Tempo fa ricordo di aver letto qualcosa a proposito di un tuo progetto solista. Confermi? Ci puoi dire qualcosa in merito?

Sette pezzi di questo disco dovevano essere del mio progetto solista. Li ho buttati dentro perché in quel momento ho capito che, umanamente, dovevano essere investiti lì. Ho anche altro materiale ma in realtà sono un musicista per finta. Come sono anche un padre e un disoccupato. Lo faccio perché mi piace il palco, e ora voglio farlo senza fretta. 

 

Simone La Croce