La trafila è sempre la stessa: succede un fatto di sangue in Barbagia e finalmente la stampa nazionale si ricorda della Barbagia. I caporedattori dei più importanti quotidiani nazionali setacciano le proprie agende alla ricerca di qualche amico sardo, meglio se scrittore, meglio se scrittore con una certa visibilità, perché spieghi a tutti secondo quale secolare meccanismo avvengono degli omicidi in Barbagia. La risposta più ovvia sarebbe chiarire che gli omicidi barbaricini non sono in nulla diversi dagli omicidi in generale, ma questa risposta non viene considerata abbastanza giornalistica. Da un agguato barbaricino, infatti, ancora oggi, ci si aspetta il sapore ferroso dell'odio millenario, lo sguardo sghimbescio della vendetta a freddo, il respiro trattenuto dell'appostamento dietro al muretto a secco.

Una paranarrazione sulla quale non ci sarebbe nulla da dire: è il lievito di tutte le paranarrazioni sulla Barbagia, il palcoscenico su cui si recitano i cascami folk di questa ormai asfittica coscienza di sé, che ancora insistiamo a definire identità.

Ai giornali nazionali piace perché è esotica, ai barbaricini piace perché è consolatoria. In Continente illustra un rustico territorio d'avventura per lettori urbanizzati. In Sardegna racconta un sé posticcio, e quindi nobilitato dalla distanza, per lettori antropologicamente depressi.

Attraverso quello che crediamo di sapere di un posto, fingiamo di interpretare quanto in quel posto accade. E se si azzoppa una capra in Barbagia non c'è dubbio che si debba ricorrere al Codice Barbaricino piuttosto che al più consono veterinario.

I demoni di una generazione prigioniera di orizzonti vuoti Giovani e giovanissimi inseguono il mito di una malintesa "balentia" e per loro le armi riempiono il vuoto della parola. Ora vai spiegare all'amico Caporedattore in questione, che lavora in una grande testata nazionale, che il Codice Barbaricino è un materiale culturalmente delicatissimo, di cui non bisogna abusare se non si vuole giustificare anziché condannare senza sé e senza ma. Il recente delitto di Orune, per esempio, non è una di quelle faccende per cui occorra scomodare il Codice Barbaricino, proprio perché questo richiamo può far sembrare questo orrore diverso da quello che è. Può trasformare, nello specifico, una manica di delinquenti, in eroi ammantati di chissà quale aura epica. E questo sgarbo ulteriore a quella vittima innocente e giovanissima, proprio non lo possiamo fare.

La narrazione corretta sarebbe quella dei tempi grami in cui stiamo vivendo, dell'abisso in cui questo territorio sta versando, dello stillicidio che giorno per giorno sta spopolando la Barbagia. La narrazione corretta sarebbe l'esatto opposto del Codice Barbaricino, perché per applicare un codice ci vorrebbe coscienza di sé e della propria storia.

E invece chi ha ucciso Gianluca Monni è solo un assassino senza codici, senza prospettive, senza quella coscienza di sé che non sia la farsa del prepotente, del balente falsamente inteso, dell'orgoglioso a parole, che, nei fatti, è talmente vigliacco da risolvere una disputa col fucile e il capo coperto. Niente di particolarmente barbaricino in tutto ciò, anzi l'esatto opposto.

Li conosciamo bene, a tutte le latitudini, questi campioni che ritengono di avere solo diritti e nessun dovere, che guardano coloro che reagiscono, e agiscono, con civiltà come imbelli da punire; che marcano il territorio su cui pascolano, campando del lavoro altrui, e guardando con sospetto chiunque dimostri che si può uscire dalla commiserazione rabbiosa di sé. I nemici di costoro si chiamano civiltà, legalità, cultura.

Gli alleati sono: autocommiserazione, pigrizia, invidia. In Barbagia e nel mondo: sempre gli stessi.

Fonte: http://lanuovasardegna.gelocal.it/nuoro/cronaca/2015/05/12/news/con-l-omicidio-di-orune-il-codice-barbaricino-non-c-entra-1.11406239