L’estate è in dirittura d’arrivo e con essa partiranno gli ultimi irriducibili turisti. Una stagione, quella ancora in corso, di numeri, mite e nemmeno troppo lunga, ma indubbiamente e contro ogni aspettativa, affollata. Se da un lato non sono mancati gli ospiti a sollevare gli indici dell’economia, d’altro canto, noi che viviamo l’isola tutto l’anno, ci siamo  tristemente misurati, ancora una volta, con uno dei problemi che incita lo sdegno di chi quest’ isola la ama: il pericolo incendi. 

Il primo bilancio è dolceamaro. Le immagini del mare, delle feste, del fare quotidiano dei sardi, e dei turisti, sono state interrotte da fumi neri che hanno dilaniato migliaia di ettari di bosco, che hanno sporcato i volti di chi, con fatica, è intervenuto contro enormi lingue di fuoco, e contro il tempo, per salvare il salvabile. 

E non basta trovarsi dentro o in prossimità di un incendio per sollevare lo stato d’allerta, essendo un problema che andrebbe affrontato in continuazione e, se ci fossero le possibilità, andrebbe punito subito. Ma i colpevoli rimangono pressoché anonimi e le prove si dissolvono tra le fiamme. E’ nostra abitudine pensare che il rischio incendi sia un fatto propriamente del periodo estivo. Invero, un ambiente secco o tendente alla desertificazione, circostanza in apparenza lontana ma che di questo passo caratterizzerà il paesaggio da qui a pochi anni, porterebbe allo sviluppo di incendi in qualsiasi momento, analogamente a quanto accade in estate.

Un’isola dal patrimonio naturale immenso che subisce nemmeno troppo lentamente una devastazione totale del territorio, e che viene osservata, molto spesso passivamente, portando i suoi abitanti, con amarezza, a non riuscire, o non voler, bloccare il fenomeno.

Allora che fare? Partire dal tessuto culturale sviluppando un’indignazione mediatica potrebbe già essere un buon passo.

Ed è proprio questo ciò che manca. Una coscienza collettiva che dia la misura della gravità della piromania, una mania incendiaria, per l’appunto, da trattare come una malattia. Manca la consapevolezza che permetta di immaginare quel che accadrà prima che si palesi: i problemi climatici ad esempio, con l’aumento delle temperature e delle piogge torrenziali, che in assenza di un terreno in grado di arginarle come conseguenza della perdita di alcune specie vegetali e dei picchi di CO2, amplificheranno il rischio alluvioni. 

La Sardegna potrebbe diventare un deserto in maniera irreversibile rompendo quell’antico equilibrio che solo la forza della terra ha mantenuto, e sono in pochi a domandarsi cosa accada realmente nel sottosuolo, quali siano gli interessi, reconditi e perlopiù oscuri,  che hanno portato allo sviluppo di atti criminali, proprio nel luogo che può auto compiacersi di bellezza naturale.

L’auspicio è che l’interesse generale sia quello di continuare a vivere in un ambiente equilibrato, ma occorre acquisire un’idea unidirezionale al pensiero che quando un albero brucia, brucia una cosa nostra, che è appartenuta a chi ci ha preceduto e che noi lasceremo in custodia a chi verrà.

 

Autore dell'articolo
Natascia Talloru
Author: Natascia Talloru
Freelance nel settore culturale. Dopo anni di formazione scientifica tra Cagliari e Milano, mi indirizzo nello studio delle terapie naturali, della medicina alternativa e antropologica, in particolare della Sardegna. E’ in Barbagia, nei luoghi del cuore, che le mie passioni per il giornalismo, la comunicazione e la musica si trasformano nel tempo in lavoro. Attualmente scrivo su testate giornalistiche online/offline e collaboro con diverse realtà locali nell’ambito della comunicazione web. Ho ideato Ilienses, un progetto musicale, culturale e audiovisivo sulla Barbagia, di cui sono anche General Manager. Vagabonda errante per natura, trovo la mia pace dei sensi nell’abitare e vivere i paesi della Sardegna, a contatto con la terra e le sue meraviglie.
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