Gli effetti dello spopolamento causeranno pericolose ripercussioni sulla tenuta sociale e civile delle zone interne della Sardegna. La politica porta avanti l'accentramento amministrativo e sanitario anziché adottare la soluzione contraria: centri di accoglienza per anziani affiancati da università e scuole di specializzazione, come accaduto per Oxford e Cambridge nate come satelliti culturali di Londra. Basse nascite ed emigrazione, soprattutto dei giovani, stanno spopolando la Sardegna. Le grandi città e le zone turistiche si difendono, sia pure con fatica, concentrando produzione e reddito e attraendo il resto della popolazione sarda. Lo spopolamento riguarda quindi le aree minori, con effetti ancora più gravi di quelli paventati sulla caduta dello sviluppo e dell’occupazione dell’intera Isola, perché concentrati sulle aree deboli del territorio.

Ciò avrà pericolosi effetti sulla tenuta sociale e civile dell’Isola. Invece di operare contro questa tendenza, si programma un rafforzamento di questa tendenza accentratrice sul piano amministrativo e su quello sanitario; si favorisce infatti la concentrazione delle attività nelle aree capaci di reagire spontaneamente, accelerando lo spopolamento delle aree deboli a favore di quelle forti, depauperando l’unica ricchezza sulla quale la Sardegna può ancora contare: il territorio e le sue vocazioni. È urgente reagire. Occorre raggiungere quanto prima la coscienza dei problemi da affrontare e programmare un uso finalizzato delle risorse disponibili. I media hanno un ruolo determinante. Dopo l’ubriacatura della grande industria, non ancora smaltita dato che assorbe energie politiche e sindacali e parte delle risorse pubbliche sempre più inadeguate, la forza della vocazione del territorio, pur tra mille problemi, va imponendosi nell’agroindustria e nell’artigianato; si infittiscono inoltre i servizi privati, ma il commercio diventa sempre più terra di scorribande.

Il sughero è in serie difficoltà e i lapidei appena si difendono. Il turismo è ormai impantanato nella questione dei trasporti, problema che non esisteva quando esso aveva caratteristiche di lusso ed era in condizione di sopportarne i costi elevati. Si è invece propiziato il turismo popolare e la massificazione delle presenze. Non torno sul tema sul quale ho insistito con alcuni illustri colleghi quando ho scritto (credo) l’ultimo Piano di Rinascita, perché considero che ormai la partita è persa. Ci terremo il turismo a basso valore aggiunto che trascina pur sempre un poco di reddito e di prodotti locali ma utilizza male la ricchezza del territorio che richiederebbe ben altro uso rispetto a quello fatto da non pochi B&B e dal consumo di panini e birra, con l’ottimo pane sardo che scompare dai supermercati. I commercianti e i consumatori sardi continuano a ignorare che il loro scopo sarebbe trattenere quel poco di potere di acquisto che si forma o arriva in Sardegna per difendere il loro reddito e la loro occupazione; preferiscono cederlo per pochi risparmi di prezzo alle regioni più coscienti del problema e più ben governate. La grande distribuzione locale dovrebbe spontaneamente offrire e i sardi dovrebbero acquistare e proporre ai turisti prodotti della terra sarda, difendendone la qualità e l’origine rigorosa.

Speriamo che, come accaduto per il turismo di qualità, lo capiscano prima che la crisi si diffonda anche alla grande distribuzione. Non vedo ancora questo problema nell’agenda dell’Isola, anzi si elogia il contrario. Per il turismo va tentata la soluzione dei centri di accoglienza per anziani nelle zone amene della Sardegna, con poco traffico, aria buona, buon cibo e, soprattutto, assistenza sanitaria locale. Il numero degli anziani è l’unica area certa di sviluppo. Fungerebbe da supporto l’affiancamento di università e di scuole di specializzazione, come accaduto per Oxford e Cambridge nate come satelliti culturali di Londra. Giovani e anziani convivrebbero nelle aree economicamente più deboli rovesciandone le sorti, senza aggravare la congestione delle grandi città o dei grandi centri turistici, il cui costo si intende ignorare; si insiste che l’intento è di ridurre gli oneri complessivi dei servizi amministrativi e sanitari concentrandoli in aree già congestionate. Credo che manchi una seria analisi del problema. La mia valutazione è che il ricavo immediato dei risparmi, ammesso che tali siano, è sovrastato dal costo sociale dei trasferimenti richiesti alle aree deboli per beneficiare dei servizi accentrati in poche grandi città.

La concentrazione delle attività amministrative (talune con illogiche giustificazioni, come la chiusura delle sedi locali della Banca d’Italia) e delle prestazioni sanitarie di cui si parla in questi giorni, su aree che hanno già un intasamento urbano e capacità di reagire alla crisi è non solo contro ogni principio di giustizia sociale, ma anche di ogni sana prospettiva di sviluppo e di equilibrio sociale. I risparmi invocati sono illusioni di breve periodo e sono invece scelte miopi nel più lungo. Se manteniamo la popolazione dove si trova e innestiamo in essa nuove iniziative del tipo indicate (anziani, giovani e sostegno delle vocazioni territoriali) creeremo le condizioni per una ripresa, che oggi mancano. In particolare la dinamica della popolazione e dell’economia richiede che le attività amministrative e gli ospedali si trasferiscano dai grandi centri o restino nei piccoli dove già esistono, non programmare l’opposto come si va facendo; se ci sono tagli da fare, si facciano nelle sovrastrutture parassitarie che le governano. Si snelliscano i grandi centri e si rafforzino i piccoli.

Se vogliamo rialimentare il disordine sociale, la strada è aperta. Spero che politica e cittadinanza evitino di infliggere questa ulteriore ferita all’Isola.

 


*saggio pubblicato originariamente su L'Unione Sarda

Paolo Savona