Un luogo affollato come un altro. Uomini, donne d’ogni età, quelle più anziane con lunghe e voluminose gonne scure con scialle. I giovani vestiti secondo gli sbrigativi canoni giovanili: scarpe da ginnastica, jeans debitamente lisi e scoloriti. Non sembra improprio pensare che gli anziani e i giovani incarnino come meglio possono la tradizione e la modernità: una tradizione alquanto sbiadita e una modernità ricalcata sui modelli più facili; le due sponde della storia fra le quali la Sardegna sembra ondeggiare incerta.

Altrove, sul muro d’una casa, come su cento altri muri di quest’isola, la scritta “a fora sos italianos”. La scritta ha un evidente carattere politico, poiché esprime confuse aspirazioni indipendentistiche. Come a dire: “La Sardegna ai sardi”. Ma vi è di più, anche un richiamo alla tradizione, poiché contiene un implicito appello all’identità regionale, che della tradizione è il perno. L’identità, cioè il patrimonio di caratteri prevalenti, di valori condivisi, di norme e consuetudini, d’usi linguistici, di modi di vivere e di pensare, che dovrebbero accomunare i sardi. Si potrà forse supporre che in passato questo patrimonio, pur non essendo una realtà compatta e uniforme che necessariamente abbracciasse ogni sardo, fosse tuttavia un dato verificabile e avesse una consistenza ben definita. Ma quella sarda era allora una società di struttura relativamente semplice, in gran parte radicata nel mondo rurale: avrà pure un qualche significato il fatto che, su 100 sardi in età da lavoro, 51 fossero contadini o pastori.

L’identità regionale che così di frequente oggi viene evocata, aveva una forte connotazione rurale, che si affermò in una sua particolare accezione, che era quella pastorale. L’immagine del sardo non era quella del contadino della grande pianura del Campidano o delle colline della Marmilla che coltivavano grano e legumi, ma quella del pastore, meglio se barbaricino con l’aspetto ruvido e severo. Perché s’immaginasse la Sardegna come l’isola dei pastori, a conti fatti, non c’erano ragioni di natura oggettiva: 50 anni fa i pastori erano appena un quinto di coloro i quali lavoravano nei diversi settori del mondo rurale, e un decimo dei sardi in età da lavoro. Oggi la loro consistenza numerica si è ridotta in larga misura: gli addetti all’agricoltura sono complessivamente il 10% della popolazione attiva, ma fra loro solo il 4% è rappresentato da pastori e il 6% da agricoltori in senso proprio. Il prevalere, nel definirsi dell’identità regionale, della componente pastorale dovrà quindi essere attribuito alla forte caratterizzazione degli usi, della cultura, della tradizione del mondo dei pastori, forse per come vivevano questi, in uno stato di costante conflitto con i poteri dello Stato, con i proprietari della terra, con gli industriali caseari, oppure con chi, pastore egli stesso, era pronto a insidiare gregge e pascolo. Quindi pastore guerriero e una tradizione alla quale quest’idea non era estranea. Da qui la rigida chiusura nei confronti dell’esterno e una radicata diffidenza o un’aperta ostilità nei confronti di tutto ciò che, veniva dal di fuori, soprattutto dal Continente. Diffidenza e ostilità largamente giustificate dal fatto che la Sardegna, lungo tutto il corso della sua storia, fosse stata terra di conquista, e che l’atteggiamento duramente repressivo dei dominatori che s’erano succeduti, dagli spagnoli allo Stato italiano, non era valso a vincere.

Massimiliano Perlato