*Di ANDRÍA PILI

"Gramsci è nato in Sardegna nel 1891. La Sardegna era posta in un rapporto coloniale con l’Italia continentale. Il suo primo contatto con le idee radicali e socialiste fu nel contesto di crescita del nazionalismo sardo, brutalmente represso dalle truppe inviate dalla penisola. Sebbene dopo la sua emigrazione a Torino e il suo profondo coinvolgimento con il movimento dei lavoratori della città, lui abbandonò il suo primo nazionalismo, non perse mai l’interesse (…) verso i problemi contadini e la complessa dialettica tra la classe e i fattori regionali” 

Con queste parole, il celebre sociologo e teorico dei Cultural Studies, Stuart Hall (1986), riconosceva l’importanza del contesto sardo per la formazione del pensiero di Gramsci e la sua rilevanza per lo studio dei temi riguardanti la “razza” e l’etnicità. L’elaborazione gramsciana sulla “questione meridionale” è oggi considerata imprescindibile per la lettura postcoloniale dei rapporti tra Nord e Sud globali; più recentemente lo storico Robert C. Young (2012) ha ugualmente riconosciuto la importanza della “prima vita in Sardegna” dell’intellettuale comunista come decisiva per il suo “interesse verso il colonialismo”, data la relazione coloniale tra il Piemonte, centro del potere politico ed economico, e la periferia Sardegna, che ha preceduto anche il rapporto Nord-Sud entro lo Stato italiano unificato. 

Questo articolo vuole offrire un breve approfondimento storico-economico sulla Sardegna in cui Gramsci visse tra il 1891 e il 1911, per capire perché ne forgiò profondamente il pensiero e la sua rilevanza internazionale.  

La crisi agricola degli anni ’90

Nel 1891 il PIL pro capite sardo era il 97% di quello medio italiano; nel 1901 la quota scenderà sino al 91%. Al contrario, lo stesso valore nel Nord-Ovest italiano passerà dal 114% al 125%. Si tratta della prima grande divergenza tra l’isola e le regioni più ricche dello Stato unitario, interrompendo un periodo ventennale (1871-1891) in cui il divario si era invece ridotto, non solo per via dell’espansione dell’industria mineraria a capitale prevalentemente forestiero ma anche per lo sviluppo di un’imprenditoria autoctona sarda legata alla viticoltura, all’allevamento e alla lavorazione del legno. La causa principale di questa inversione di rotta è la svolta protezionista della politica economica italiana (1887-88), con la guerra doganale contro la Francia che, all’epoca, era il principale mercato di esportazione proprio per quelle imprese agricole in crescita; l’epidemia di filossera della vite fu l’altra causa della “crisi agricola”, i cui effetti – tramite la crisi bancaria - si amplificarono e riverberarono anche sulle piccole manifatture urbane. 

Gli anni’90 del XIX secolo sono stati particolarmente drammatici per l’isola: gli espropri per debito d’imposta furono tali da ridurre di circa il 30% il numero di proprietari terrieri (Ortu 1998) e da essere, per numero e valore, circa la metà rispetto a quelli dell’intero Stato (Atzeni 2000). Inoltre, la pastorizia aveva ripreso a dominare sull’agricoltura, creando le condizioni per l’oligopolio dei caseifici laziali, giunti nell’isola al fine di produrre pecorino romano destinato al mercato nordamericano. Il protezionismo danneggiò tanto la Sardegna quanto il Meridione ma era funzionale alla creazione del Triangolo Industriale nel Nord-Ovest italiano; perciò, la Lombardia, il Piemonte, la Liguria nello stesso periodo ebbero una notevole crescita economica determinata dalla loro industrializzazione. Inoltre, mentre le campagne sarde soffrivano, “gli azionisti torinesi” continuarono comunque a riempire “i loro portafogli coi dividendi cristallizzati col sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame” (“I dolori della Sardegna”, Avanti!, 16 aprile 1919)

Questa politica non fu una parentesi ma segnò la storia italiana per i decenni successivi, tra fascismo e guerre mondiali, portando il divario Nord-Sud a una notevole ampiezza sino al 1951 (quando il PIL pro capite sardo era il 63% di quello medio italiano e lo stesso valore nel Nord-Ovest era invece del 152%). 

Prima pagina del N.1 dell'Avanti! (25 dicembre 1896) di cui Gramsci fu redattore 

Gramsci identificò giustamente il protezionismo come la base degli interessi comuni delle classi dominanti in Italia: i capitalisti industriali del Nord e gli agrari meridionali contro gli operai e contadini, i quali – da Nord alle isole - dovevano allearsi per la realizzazione di una rivoluzione socialista. Il primo sardismo aveva la politica governativa come suo bersaglio principale; uno dei movimenti più importanti in questo senso è stato il Gruppo di Azione e Propaganda Anti-Protezionista di Attilio Deffenu e Nicolò Fancello, cui Gramsci aderì nel 1913, condividendone il manifesto, che attribuiva al protezionismo la causa della miseria isolana e denunciava come, al contrario, avesse favorito l’industria settentrionale (Fiori 1966). Successivamente, in un articolo su l’Avanti! del 23 ottobre 1918 (“Uomini, idee, giornali e quattrini”), ricordò la relazione del deputato Francesco Pais Serra (1896), affermando come la condizione dell’isola che da lì emergeva - “L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica; caddero le foreste (...) per trovare merce facile che ridesse credito, e piovvero invece gli spogliatori di cadaveri” - fosse un marchio di infamia per la politica di Crispi e dei gruppi sociali a suo sostegno, anticipando le sue idee in merito all’esistenza di un’alleanza industriali-agrari.

Caccia grossa: banditismo, razzismo e violenza coloniale

La grave crisi descritta sopra provocò una recrudescenza del banditismo, per la cui repressione, nel 1899, il governo Pelloux inviò il 67° reggimento di fanteria nell’isola. Tra i soldati c’era anche il tenente Giulio Bechi – già reduce dell’Eritrea – il quale nel suo “Caccia Grossa” (1900) narrò la retata contro la popolazione del Nuorese - in cui furono sequestrati numerosi capi di bestiame e arrestate un migliaio di persone - e la caccia a cinque latitanti nei boschi di Morgogliai (Orgosolo), in cui quattro di loro saranno uccisi. Si tratta di un libro impregnato di razzismo e di mentalità colonialista, in cui l’autore si descrive come “figlio raffinato della civiltà” in un territorio “altro” - più simile a un paese arabo che all’Europa - in cui la popolazione respirerebbe “nell’aria il germe del bandito”;  la repressione viene salutata “nel nome dell’umanità e della giustizia”, come “uno sprazzo di luce purissima” portato da carabinieri e soldati; i sardi sono descritti come barbari “primitivi”, “in cui bolle ancora tanto sangue africano”; degenerati e perciò prigionieri delle “veemenze della razza e delle passioni istintive”. I banditi vengono deumanizzati, dipinti con tratti animaleschi; essi sarebbero dei vermi nati “in un corpo vecchio putrefatto”. 

Il libro di Giulio Bechi è importante per capire il razzismo antisardo dell’epoca e la violenza in Sardegna. Violenza coloniale in quanto il banditismo – come il brigantaggio nel Meridione – era considerato non come un crimine comune ma come la manifestazione dell’inferiorità razziale delle popolazioni che l’avevano generato. Essendo tale, erano giustificati forme di repressione e mezzi straordinari, lesivi dei diritti civili, inammissibili altrove, in zone ritenute civilizzate; sono intere comunità ad essere colpite, non singoli responsabili criminali. Antonio Gramsci si riferirà a quel libro in un articolo dedicato a “La Brigata Sassari” su l’Avanti! del 14 aprile 1919: “i signori torinesi, la classe borghese di Torino, che ha seminato di lutti e rovine l’isola (…) facendo perseguitare dai carabinieri e dai soldati come cinghiali, per monti e valli, contadini e pastori sardi affamati”. Nei Quaderni, tornerà a riferirsi al libro scrivendo che il suo autore “ha trattato la popolazione come negri”.

I testi dell’antropologia positivista sulla Sardegna di fine Ottocento, attribuendo il banditismo a cause razziali, avevano coperto le responsabilità politiche nell’incremento della criminalità; già dal passaggio citato si comprende come Gramsci riconobbe la funzione del razzismo interno nel giustificare lo sfruttamento capitalistico, facendo del sottosviluppo una colpa dei meridionali e di questi ultimi la “palla al piede” che ostacola i sogni di grandezza della borghesia italiana. In un articolo su l’Avanti! del 24 maggio 1916, “Gli scopritori”, così il pensatore sardo si faceva beffe di uno di questi antropologi, Giuseppe Sergi: “i sardi passano per lo più per incivili, barbari, sanguinosi, ecc., ma non lo sono evidentemente quanto è necessario per mandare a quel paese gli scopritori di buona volontà”. 

 “A mare i continentali!”. Cagliari e la crisi sociale del 1906. 

Ottenuta la licenza ginnasiale a Oristano, nel 1908, Gramsci giunse a Cagliari per proseguire i suoi studi liceali. La città, oltre a essere uno dei centri del socialismo isolano era un contesto intellettualmente vivace, in cui il giovane Antonio iniziò a precisare meglio i propri interessi intellettuali (D’Orsi 2018). 

Dal 1901 al 1911 l’isola aveva vissuto una breve parentesi di ripresa economica (Atzeni 2000, Di Felice 1998), su impulso dell’industria molitoria e casearia e degli effetti della legislazione speciale del 1907, volta al miglioramento dell’agricoltura tramite opere di bonifica, bacini idroelettrici – grazie all’interesse del capitale finanziario esterno - e aiuti al credito agrario. Queste innovazioni incentivarono le imprese sarde alla introduzione di metodi di coltivazione più incisivi, a potenziare il patrimonio zootecnico e a creare stabilimenti vinicoli e concerie; tuttavia, l’intervento italiano nella Grande Guerra (1915) interverrà presto per soffocare anche questa effimera boccata d’aria. 

Al di là delle apparenze contabili, non si trattò di una fase particolarmente serena: l’integrazione dell’isola nel mercato capitalistico italiano aveva prodotto grandi contraddizioni. Buona parte della produzione agroalimentare, dunque, viene diretta verso il mercato e a beneficio dei monopolisti continentali detentori di mulini e caseifici, i quali pagavano miseramente i produttori e intascavano abbondanti ricavi dalle esportazioni; la popolazione lavoratrice dovette fronteggiare il carovita, determinato dai pochi prodotti rimasti nell’isola a fronte della domanda. Perciò vi furono grandi proteste popolari in tutta l’isola, tra cui a Cagliari nel maggio 1906, saldanti gli interessi di minatori, contadini e pastori contro i detentori del potere economico (Accardo 1996) e i suoi simboli - i casotti daziari, le tramvie, i caseifici (Sotgiu 1986) - manifestazioni visibili dell’alienazione subita dalle masse popolari. Lo storico Manlio Brigaglia (2006) ha spiegato come “l’odio popolare sembra appuntarsi soprattutto contro i ‘continentali’, come sono gli imprenditori delle miniere, i grossi commercianti delle città, i padroni dei caseifici”. Questo il clima in cui, il giovane Gramsci ricordò di ripetere spesso “a mare i continentali!” e di pensare che si dovesse lottare per l'indipendenza nazionale della regione. 

La crisi sociale del 1906 non era certo un fatto isolato: già dal 1899 vi erano stati numerosi scioperi, innanzitutto nelle miniere, passando per il tragico eccidio di Buggerru del 1904, con l’uccisione di quattro minatori in protesta per ottenere l’aumento del salario e la riduzione dell’orario di lavoro. In questo contesto sorse un “nuovo autonomismo”, dato che i moti sociali avevano reso diversi intellettuali – compresi esponenti del movimento socialista nell’isola – consapevoli dell’esistenza di una questione sarda e della necessità di affrontarla; il giovane Gramsci in questo periodo sarà “socialsardista come la gran parte dei socialisti sardi” (Lussana 2006). Più tardi, si distinguerà dai sardisti per proporre una chiara soluzione socialista alla questione sarda, dando ai lavoratori isolani il potere sull’economia della propria terra, allora in mano a capitalisti stranieri: “Espropriando i grandi capitalisti, il socialismo farà sì che le miniere dell’Iglesiente siano dei sardi e non degli inglesi, che le ferrovie sarde siano dei sardi e non dei capitalisti torinesi, che le grandi tancas siano dei contadini sardi e non di proprietari francesi o italiani del continente, che i caseifici sardi siano dei pastori sardi e non dei capitalisti romani o dell’Isola di Ponza” (“La Sardegna e il socialismo”, Avanti!, 13 luglio 1919). 

Gramsci, la Sardegna, il mondo

"La Sardegna si trova quindi, nei confronti del governo centrale, in condizioni economiche e politiche simili a quelle della classe operaia nei confronti del capitalismo" ("La Sardegna e la classe operaia", 16 luglio 1919, Avanti!)

L’economista Branko Milanovic (2016) ha scritto come, ancora oggi, la principale fonte della diseguaglianza globale sia la propria posizione nel pianeta. In un mondo ancora profondamente segnato da una profonda diseguaglianza Nord-Sud, nascere in un determinato luogo può fare la differenza sulle opportunità cui si può accedere per rendere migliore la propria vita, esattamente come nascere in una determinata classe sociale o avere un determinato genere o colore della pelle. Ciò vale anche all’interno del Nord globale nei Paesi in cui rimangono forti divari regionali, in particolare l’Italia, caso esemplare di persistenza dei divari di sviluppo economico: il PIL pro capite sardo, nel 2011, era pari al 77% della media italiana, esattamente come nel 1871; il divario con il Nord, invece, è aumentato, tanto che il Nord Ovest lungo 140 anni è passato dal 114% al 121% e il Nord Est Centro dal 100% al 114%.

Pure in una condizione profondamente meno drammatica rispetto all’epoca in cui visse Gramsci, al netto del notevole miglioramento delle condizioni di vita, la questione sarda rimane ancora in piedi. Nonostante una formale autonomia regionale e l’avvento del processo di europeismo e di globalizzazione, la sua storia coloniale interna continua ad avere conseguenze e a ripetersi in nuove forme, tanto nella condizione economica, quanto nel divario del potere politico nei confronti dello Stato centrale come dei soggetti economici più influenti, localizzati al Nord e anche sul piano culturale: ad esempio, ieri il capitale piemontese e ligure nelle miniere, oggi il capitale lombardo nella petrolchimica; ieri la violenza coloniale e razzista del 67° reggimento di fanteria, oggi l’occupazione militare e il discorso coloniale e razzista a giustificazione della sua presenza e in difesa dei profitti delle imprese dell’industria bellica e dello stesso Stato; screditato il razzismo biologico oggi persiste un razzismo culturale antisardo, nella stampa, nelle dichiarazioni di politici e imprenditori. 

Come il divario tra Nord e Sud del mondo, quello tra la Sardegna e il Nord Italia entro l’ordinamento istituzionale italiano è anche la conseguenza di un rapporto coloniale. Nascere nell’isola che è stata il primo Sud all’interno di uno Stato italiano, ha reso Gramsci un pensatore universale, cui studiosi e attivisti politici guardano per comprendere le ragioni della propria posizione subalterna in rapporto a un Nord, dal punto di vista economico, politico, culturale.

Anche in Sardegna dovremmo guardare più spesso a Gramsci, innanzitutto per comprendere la nostra condizione e poi per cercare di cambiarla. 


*Andria Pili (1990)

Laureato in Economia con una tesi sul rapporto tra istituzioni e sottosviluppo economico nella storia economica sarda. Già attivista politico-culturale, attualmente membro del collettivo di ricerca Filosofia de Logu, entro cui ha collaborato alla realizzazione del libro "Filosofia de Logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna", Meltemi (2021). Collaboratore per blog di divulgazione politica ed economica come Ethnos&Demos e Arrexini^2.


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L’illustrazione dell'articolo è di Guido Scarabottolo

 


*RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI