Ti cade sotto l’occhio una pagina del ‘300 e ti punge vaghezza di saperne di più, approfondire, scavare nelle altre fonti dopo questa del Villani (Matteo), la Crónica dell’Anonimo Catalano, la Pisana, l’opera dei fratelli Stella, Naugerio o Navagerio e Dandolo che poco aggiungono alla trama ed all’ordito delle prime due. Il fatto è la battaglia che ora diciamo di Porto Conte, quel martedì 27 agosto del 1353. E allora, come in uno di quei corsi full immersion che mai mi vedranno allievo, a cercar di tutto, lì attorno, per indovinare se non delineare atmosfere e colori, discorsi diretti e suoni, gestualità, istinti e premeditazioni, di chi remigava e si batteva per mare: Dante e quel libro che lo mette in rapporto con l’arte navale, Francesco da Barberino (1264-1348), le parole tronche dell’Anonimo Genovese che parla di altri scontri di rostro e remo (Curzola e Lajazzo) i progetti grandiosi di Marin Sanudo di Torcello (1260-1338), le istruzioni di Egidio Romano (1243-1316), gli aridi elenchi di dotazioni che le galere liguri dovevan imbarcare per l’Oriente (il “Libro della Gazaria”), e, o Muse o Alto Ingegno, qualcuno dei tasselli si potrà pur riempire.

Era già cominciata, dice Matteo, l’izza da ·Genovesi a ·Viniziani, cioè quella lotta per l’egemonia del mare e del commercio estero che si strascica per una buona porzione di Basso Medioevo e della sua letteratura, ma che implica, aggiungiamo noi, l’alleanza dei più freschi Catalani col Leone di San Marco: con gli uni, la rivalità era in Oriente, nell’Egeo ed in ciò che restava del’impero bizantino; coi Catalani, invece, a questa materia del contendere si univa quel larvato possesso di capisaldi nella Sardegna, dove in trentennale alleanza si stringevano lo stato locale (il Giudicato di Arborèa) e le forze del Re d’Aragona. Dice l’Anonimo Genovese che Tanti son li Zenoesi e per lo mondo si destexi che unde li van e stan un’atra Zenoa ge fan. 3 Un po’ come si sarebbe detto degli Inglesi dell’età moderna che, intinto un dito nell’acqua, dicevano: “E’ nostra!” al minimo sapor di salmastro. Di altre Genove, certo s’era riempito il Mediterraneo, ed anche, ed assai in fondo, il Mar Nero, Genove fondate con galere, balestre famose e richieste a cottimo, compreso l’uomo, in tutta Europa, e col denaro sonante.

Ed ora l’ultima Zenoa era Alghero sul Mar di Sardegna, allora la Lojera (Villani, ma anche Petrarca) o Algargerium (Stella), La Lighiera (la Cronica di Pisa), El Alguer (il Catalano senza nome), Algerium de Partibus Sardiniæ (Dandolo) e la città di Leger (per il Naugerio o Navagerio). Cioè, se sino a poco prima Alghero era sotto un ramo dei Doria e amica di Sardi ed Iberici, ora aveva issato la bandiera con la sottile croce di San Giorgio in campo bianco: la stessa colorazione delle galee della Superba durante qualche spedizione crociata (poi si usò per gli scafi –o “corpi”- il glauco, e così dobbiamo raffigurarcele). Grande scandalo quindi in Catalogna Aragona, che i Doria si fossero permessi, e, in Liguria, gran contrallarme per soccorrer la nuova Zenoa, che, già, da terra, le forze del Giudicato sardo stavano assediando, in attesa delle flotte dei Catalani e dell’alleata Venezia. La nimistà fra queste tre potenze era, come s’accennava prima, stagionata al punto da divenir τόπος nelle cronache ma financo nella narrativa e se En (che è quanto dire Don o Sir , ma per un Catalano) Ramón Muntaner (1265-1336), quel resocontista neppur grandissimo che copre gli anni dal 1204 al 1328, ci dice che ai balestrieri genovesi i suoi compatrioti almeno in un’occasione avevano ablato gli occhi e resecato le mani, altri esempî analoghi si hanno in Sercambi (in una novella, lui così “terrestre” per origine ed interessi, parla di marinaî liguri, stavolta filati in mare per esecuzione, dopo la cattura da parte dei soliti …) e passim in restante novellistica.

E, tra Veneziani e Sangiorgini, idem: si pensi, solo un istante prima, nel 1352, alla giornata di Negroponte, seguìta dalla rappresaglia di Candia: di 11 remiere che vanno a Caffa, 9 son prese dalle dogali, corpo, beni e personale, e portate a Creta. “ Avutane lingua” cioè notizia, i Liguri “quanti legni avieno armarono fornendosi d’arme e di balestre doppiamente “ e sbarcarono sull’isola. Ci si figuri un istrice urlante, ameboide e se posso dir tentacolato, che si sparge in una cittadina la cui fortezza è già 4 investita ed espugnata, si sfondano porte si aprono le carceri dei prigioni di guerra, si piglia quel che si può, in ispecie si ripreda il predato, e si dà fuoco alle case. Né è da creder –io almeno non credo- che si facesser salvi donne e bambini: non era epoca, e, d’altronde, forse non lo è mai stata.

Dopodiché, e per anni, si tigne di sanguigno il mare, ed anche, un po’ meno, la terra. Ma torniamo alle forze contrapposte: né in Iberia, né in Italia usavano allora flotte o stuoli, o estols permanenti: troppo costosi, e s’armava di volta in volta ciò che serviva per una campagna. Era comunque finita l’età delle piccole azioni di incursori, ereditate dai Normanni furentes e da Arabi: ancóra nel XII secolo si pena a trovar grandi numeri e, quando Pisa contende il Tirreno a Genova, Caffaro e gli altri celebrano zuffe e scontrazzi di pochi contro pochi, magari di una nave enorme e mirifica contro un pugnel di galee, ma di lì a poco si ha il venti contro quindici, decine contro decine, la Meloria e Curzola (e qui siamo, a dar retta al Villani, a 110 contro 120: più probabilmente, quasi 80 contro circa 100) che fanno sì che i Genovesi siano “più che Comune o Signore al mondo ridottati” = temuti “in mare”. Battaglia di Curzola, 8 settembre 1298 5 Affresco di Lazzaro Tavarone presso il Palazzo Cattaneo-Adorno di Genova raffigurante i balestrieri genovesi durante la Presa di Gerusalemme (foto di Davide Papalini, 2009, wikimedia commons) 6 E’ l’età dell’oro per l’inquieta Repubblica, che endemicamente soffre di senso del gruppo che si raccoglie attorno ad un individuo (la “Compagna”) più forte del sentimento di Stato, e che trova letterati ed artisti che, come l’Anonimo, ne canteranno le gesta in versi, prima della decadenza, sia pur lenta e non costante, del XIV secolo: altro che Toscana, ora è il tempo del ferro e d’Annunzio li dice “piantati nel sodo col calcagno”.

Pure, a qualcuno si deve ricorrere per immaginarli in mare e nelle battaglie, e ci si scusa col benevolo lettore per le tante estrapolazioni che, forse anacronisticamente, ne tireremo fuori. Dice almeno un cronista che per una spedizione scesero al porto, reclutati di fresco, genti di mare e soprassaglienti: è curiosamente un termine comune a varie parti d’Italia, nonché a Provenza, Catalogna e Castiglia: sono gli armati di bordo soprannumerarî rispetto rematori e marinaî, ma, se ci si riflette, destinati comunque a star almeno un po’ più in alto di questi, sulla corsia centrale o nei castelli o le coffe con i loro ferri da taglio, punta, botta, e da lancio, raggruppati appunto per “compagne”, e poiché ognuna aveva colori ed araldica, entrambi si raffiguravano nelle vesti e negli scudi. Così forse, per tradizione, andò anche in quell’estate del 1353. Le galere erano circa una sessantina tra grandi e piccole, e non nominerò altre imbarcazioni che, giunti i Genovesi ad Alghero, sembrano scomparse per strada: non era il caso di magnificare come si era fatto per Curzola Mai non vi stol si grande alcun Faito per Rei ni per comun … mentre un altro stol di 20 galere veneziane si dirigeva verso il Tirreno e così l’estol dei Catalano Aragonesi, allestito a Barcellona, nelle Baleari e nel Regno di Valenza, forte di 45 tra galere ed “uscieri” (affini a queste, ma caratterizzati, questi ultimi, da uno o più “usci” sigillabili e calafatabili prima della partenza, e dopo aver imbarcato svariati cavalli dalla poppa) e 3 grosse cocche e 4 veliere più piccole.

Le navi sono in porto e vogliono collare o altrimenti salpare e, al comando, vi sono rispettivamente l’ammiraglio o amirato Antonio Grimaldi 7 genovese, detto financo armiragius nel tardo latino degli Stella, i quali talvolta ci fanno sapere, per certe denominazioni, che quello è il termine, per loro, moderno; Nicolò Pisani per i Veneziani e, infine, En Bernat de Cabrera (1398-1364) era il Capitá General dell’armata partita dal Mediterraneo Occidentale. Anche le grandi crociere, libere da pastoie di cabotaggio e di continuo appoggio a terra, sono un retaggio del Duecento: la cartografia nautica è adulta, ed il suo atto di nascita ufficiale è quel passo della vita di San Luigi vergata da Guglielmo de Nangis: nel 1270, nel mar di Sardegna, il sovrano che va all’ultima Crociata per morirvi di malattia, è preoccupato perché è molto che non si vede terra: i suoi Genovesi dispiegano un gran foglio scritto ed illustrato insieme e gli mostrano quanto sia in realtà vicino il porto di Cagliari. E poi, proliferano i “Compassi da Navegare”, portolani descrittivi e quelle tavolette o “Tolete del Martelojo” che permettono anche al meno còlto degli artigiani del pilotaggio di corregger e ritrovar la rotta dopo la constatazione di un errore pur madornale.

E poi, c’è la bussola: riposiamoci sulla sua storia e sovveniamoci di Francesco da Barberino, il didascalico nato nella generazione di Dante che nello spiegare al lettore l’amor cortese prevede tutte le circostanze, compresa quella di dover menar secura la propria donna oltre mare. Anche lui v’accenna, quando dice che il nocchiere ed il suo vice (il “pennese”) devon esser assistiti d’alquanti adoctrinati di calamita stati. Insomma, da parecchî altri ben allenati all’uso dell’ago magnetizzato. Si considerino i risultati di tanto progresso nella campagna che porterà alla disfatta della Meloria: i Pisani ed i Genovesi si inseguono e si sfiorano tra Toscana, Corsica e Liguria, su direttrici diametrali o tangenti al gran cerchio che si può immaginare nell’Alto Tirreno, ma sempre o quasi in altura, per culminare, appunto alle secche eponime della battaglia. 8 I 3 stuoli dunque convergeranno verso la stessa mèta, Alghero, a scopo di soccorso degli assediati l’una meglio se, come dicevamo, dopo avere sconfitto uno alla volta i nemici scissi; questi ultimi, invece, puntano la prua lì per fare, come si sarebbe potuto esprimere un cronista toscano, una “scesa” = uno sbarco e indi “guastar il paese e prender la terra “, dove , al contrario che da noi, “paese “ sta per terra coltivabile, e “terra “ sta per città cintata, oppidum : distruggere, insomma, i frutti del suolo ed investire, anzi espugnare le mura della Lojera o Lighiera. La battaglia della Meloria, 6 agosto 1284 Miniatura dalle Nuove Cronache di Giovanni Villani Per un istante, c’è anche un’altra possibilità: i Genovesi vengono a sapere che i Veneziani sono andati dritti a Cagliari, la Castro o Castel di Castro dei Pisani sino ad un trentennio prima, ora, coi Catalani, Cáller. L’intento sarebbe di sorprenderveli, passando per il Tirreno e dar l’assalto a questa capitale regia, ma passando per la fedel Bonifacio, dove lasciano, vuote, 8 galere per fornire ottimamente le restanti cinquantadue, i Genovesi ànno lingua che gli Aragonesi di De Cabrera sono già sbarcati, unendosi alle truppe di terra del Governatore Rambau de Corbera che tengono stretto l’Alguer. Via dalle Bocche, quindi, con sosta all’Asinara. E’ il 26 agosto.

Anche gli altri, di Italia e di Spagna, hanno avuto lingua che i Genovesi son lì a IX milles, e già arrancano di voga verso Sud. En Rambau è la-9 sciato solo a sostener da solo l’assedio con i cavalieri pesanti ed i giannettarî, o come li chiamava certo lui, jinetes, e coi trabucchi, mangani, balestre da posta, insomma macchine ed ingegni che ora si direbbero d’artiglieri (molts e diverses apparellaments de combattre, dice la fonte catalana). En Bernat de Cabrera, coi soprassaglienti dell’estol, risale a bordo, la mattina di martedì 27, fa squillar la tromba e, in nome di Jesuchrist, de la Verge Maria e del cavaliere Sent Jordi (lo stesso di Genova…) esorta i suoi passando di galera in galera, come dice Dante, quando paragona Beatrice, appunto Quasi ammiraglio, che in poppa ed in prora viene a veder la gente che ministra, per gli altri legni, ed a ben far l’incuora ed affianca la sua galera a quella del Pisani. Va ricordato che, solo un anno e mezzo prima, sempre una flotta genovese contro una composita di Veneziani e Catalani si erano scontrate in ben altro teatro, vogliam dire il Bosforo, in febbraio, in mezzo ad una bufera, e la battaglia fu aviluppata 10 e sparta come tempesta marina, dice il Matteo quando si scusa di non averla potuta raccontare chiaramente: soprattutto, non si potè o non si volle, né da una parte né dall’avversa, usare l’accorgimento forse vecchio di un secolo, di affrenellare, cioè di legare insieme le galere con gomene o catene, in modo da offrire un fronte unico e compatto, irto di speroni ferrati che , al contrario che nell’epoca classica, erano in emersione. Vista in pianta, infatti, la galera medioevale ha due lati perfettamente rettilinei: non le fiancate che necessariamente s’affusolano, ma il posticcio, il telaio rettangolare su cui si inscalmano i remi.

Niente di più facile quindi che passare legaccî di canapa o ferro attorno agli elementi di due diversi posticcî, precisamente paralleli e a contatto. Ma, ripetiamo, ciò non fu fatto nel 1352, ed il cozzo sanguinoso che ne seguì potè esser visto, largheggiando, come una modesta vittoria dei Genovesi, mentre i Catalani vi persero l’Ammiraglio Poncho de Santa Pau, e, coi Veneti, migliaia di uomini ed alcune decine di galere, tra profondate e prese. Il vinto ha almeno il vantaggio di imparar dai suoi errori, mentre chi trionfa rischia di riposar sugli allori, e così andò, inizialmente almeno, quella volta ad Alghero. Gli sconfitti di 16 mesi prima si affrenellarono tutti fra loro, sinché possibile, un Veneziano ed un Catalano, meno 16 galere, libere, e le cocche, lasciate in seconda linea, occultate quasi dalla prima schiera. La squadra genovese sarebbe apparsa a mattinata inoltrata. Prima di veder Alghero, chi volta la poppa al Mar di Sardegna ha sulla sinistra un promontorio, almeno, dietro il quale alcune decine di navi larghe pochi metri possono stare in agguato, strette fra loro: Capo Caccia, ma poi anche Capo Galera, ed altre sporgenze. “Quelle che mura sono?” avrebbe potuto chiedere l’ammiraglio Grimaldi vedendo lo schieramento nemico (come il Vescovo d’Arezzo a Campaldino: così lo rappresenta Dino Compagni) e parimente gli si sarebbe potuto rispondere “I palvesi de’ nimici”, se anche il Genovese avesse avuto, come il prelato aretino “corta vista”. Perché, come nel terreno del Casentino, certo apparivano nell’insenatura dopo Capo Caccia, compattamente affiancati su tutto il perimetro dell’armata alleata e ben legata, i pavesi, quegli scudi alti e larghi da protegger più che un uomo e decorati con l’araldica di Stato o feudale o di compagnia, da sembrar cor-11 tina dipinta di un castello galleggiante, ad occhi distratti o miopi. Invece: a sentir Matteo Villani (1283-1363), fioccarono, dalle galere, accuse pesanti e reciproche di “non savia condotta” (e, pensiamo, in eletta direzione di Grimaldi stesso: abbiam già detto che, a Genova, senso dello Stato ce n’era ben poco, e così della disciplina, o di un’autorità unica, né era raro che Guelfi e Ghibellini si desser la spada addosso, sulla stessa galera, ed in tempo di guerra esterna …). “E ·lla furia prese il freno di temperanza: nello slancio, non ci si era aspettati di trovar il nimico riunito e saldamente schierato, e le cocche, benché indietro, ora non era possibile ignorarle.

Ma il ricordo del febbraio sul Bosforo e di altri episodî minori faceva ugualmente sperar bene: anche i nuovi arrivati potevano legar la loro formazione altrettanto solidamente, ed ancor di più. Vanta il Muntaner (quello che esaltava le mutilazioni dei balestrieri e le stragi dei Pisani e dei Cagliaritani a loro fedeli nel quartiere di Stampace – Shakespeare l’avrebbe chiamato, come fece con Machiavelli, murderous, se l’avesse letto = delinquenziale, omicida) che alla fazione di Roses, per la prima volta, le galere catalane si escogitò di legarle non con canapi ma, rigidamente, coi remi al traverso, che tanti e tanti, non potevano essere infranti dal tagliamare di chi vi s’azzardasse sopra, oltre al vantaggio di funger, in emergenza, da ponte tra bordo e bordo. E allora, anche i Genovesi a far così, febbrilmente passarsi i lunghi legni e ed assicurarli giglione a pala, pala a giglione, giglione a pala Alor! Alor! Alor! Ma la Crónica catalana si lascia sfuggire un dato: le ciurme genovesi, giunte a “quaix I tret de ballesta” a quasi un tiro di balestra, “surgiren por la popa”, fissarono per la poppa tutte le galere, meno 8. Si è infatti visto che in altre occasioni si faceva buon uso del terzo lato rettilineo che si vede nella pianta di queste remiere: la poppa giustappunto, che si offre piatta e benevola, senza sporgenze e meno che mai speroni, e degna di maggior protezione perché alberga in guerra un castello di bosso per gli armati e, in viaggio, il capitano e i segnori o ufficiali subalterni. In pratica: a stratagemma, stratagemma e mezzo, checché ci abbian fatto vedere schemi e disegnini di questa battaglia, con gli schieramenti paralleli e “punte” contro punte.

La fila genovese era doppia, come quei pettini coi rebbî rivolti in su e in giù. 12 Ma ora è forse d’uopo che si parli di navi, armi, e tattiche del XIV secolo, e perfezionamenti del suaccennato. Tipo dominante dal 1000 in poi è la galera, lunga decine di metri e slanciata, un acuto barcone a remi, inizialmente imperniati sui bordi, prima dell’invenzione dell’esteso posticcio rettangolare che permette un gioco più lungo al vogatore, fa da base agli scudi pavesi e rende meno arrembabile l’imbarcazione (d’altronde “rembata” significa proprio castello di prua, ultimo propugnacolo). A mezzanave, un albero a vela latina. Battaglia dell’Ecluse tra francesi e inglesi, 1340 (Jean Froissart, Chroniques) Qua e là le grandi navi senza remi e solo vele sono impiegate in guerra e non solo per trasporto di truppe.

Anzi, sembra, a dar retta al Caffaro e continuatori, che i Pisani amassero molto le formazioni miste, dato che nelle loro azioni tirreniche spesso si lodano quelle omogenee squadrette di galere liguri che han la meglio su una gran chioccia di nave enorme e con centinaia di uomini a bordo e scortata da altre più mobili ma modeste. Armate con ogni genere d’ordigni sui casseri e castelli le veliere, ol-13 treché delle armi dei singoli, mentre le galere, sulle quali è un hapax veder citati mangani, trabucchi e simili, hanno soprattutto lo sperone, e quante volte i Villani alludono certo a questo, o ai grappini d’arrembaggio quando dicono, che finalmente due galere s’afferrarono una volta a contatto … Ma vediamo sulle armi, le fonti letterarie (l’Anonimo Genovese e Barberino) e documentarie (la Gazaria). Ai primi del secolo, l’Anonimo ligure, cantando la battaglia di Lajazzo, parla di Balestre, lance e pree … e cazinna pre galee (le ultime due: pietre e calcina in polvere per accecare ed irritare le vie respiratorie) e poi, forse perché ormai si è al corpo a corpo, dice spae, rale e costorel spade, è ovvio, costorel ricorda tanto quel curtellus de latere della Gazaria (che sembra quasi rotto e seghettato, per via del rotacismo) ed è certo ad un taglio, e rale ci spiega gentilmente la glossatrice Luciana Cocito, vuol dire “ralle”. Ricorriamo al Battaglia che rimanda ad una sorta di pungolo più lungo nell’impugnatura che nel ferro, quindi un’arma popolare ed artigianale, come il “Godentag” del Nord Europa, ma ricordato (anch’esso!) dai Villani, o quella “virga sardisca” che i Genovesi non disdegnavano imbarcare, mantenendole, altre volte, il nome isolano. Ed ancóra l’Anonimo, per la Victoria Scurzulæ dice che i barestrei avevano bon quareli passaor (dardi da balestra a sezione quadra e adatti a perforar duri ostacoli: forse quelli che la Gazaria chiama veretoni boni et soldati ) e pur di saita, e, altrove, nuovamente di pietre, consigliando quele da Cogoreo, nigre, sorie =solide e manesche. E Francesco da Barberino, spesso citato nelle storie navali: E quell’arme a difesa che più fanno a la impresa: calcina con lancioni, pece, pietre, e ronconi, 14 balestra e l’altre molte ch’hai nel castello accolte.

Le spade sono certo sottintese, ed i ronconi, corti e curvi fan pensare agli arrembaggî di Spinello Aretino nel Palazzo Pubblico di Siena, anche se è passato un secolo. Alla calcina si aggiunge la pece, liquida o incendiata. Le lance sono lunghe, per anticipare il colpo quando i bordi sono solo prossimi a toccarsi: e non date retta a quei pignoli della nomenclatura che vi dicono: lancia per cavaliere, pesante o alla giannetta, e per il fante, fantappié, pedone o pedite o fantaccino, picca. Lancia per tutta l’età media dicon le fonti, per entrambe le categorie d’armati in sella o no ed anche la Gazaria usa lanzia o lancea, e basta così. Finiamo di esaminare quest’ultimo testo: vediamo che i Genovesi che commerciavano in Siria ed in Romània avevano l’obbligo di portarsi appresso (gli accusativi sono nostri) Coracias, Collarios, Pavexios, Cervellarias, Roncollas, Ballistras con parti di ricambio (gli scrocchi, gli stroppi e i suddetti verrettoni), Marrapichos seu iussarmas cum manicho de ligno (le ralle?), Lancias s’è detto e ribadito, Vervios (lanciotti, dardi a mano) bonos a dozzene, Rampegollos cum catenis de ferro duos (una coppia di grappini o rizzoni) ed infine, un inedito o quasi: ne parla Marin Sanudo Torsello nell’indicar il necessario per tornar in Terra Santa e “recuperarla”, è il “bolzone”, qui nel senso di ariete navale, posto nella corsia centrale ed imperniato all’albero, per diroccar mura portuali con la sua testa ferrata lunga palmis duobus, o per sventagliare il ponte ormai arrembato dai nemici. Nella Gazaria, pietre non ne figurano, come d’altronde, a XIII secolo finito, sembrano scomparsi, dalle truppe di terra, i frombolieri.

Diverso è il discorso delle navi veliere maggiori, che non possono speronare per non aver velocità né slancio se non dal vento, e nei cui inventarî figurano sassi quantificati a “barche”, e che avevano sulle alte piattaforme tutto lo spazio sufficiente per le armi da lancio a contrappeso o ad arco. Esse hanno anche fatto un salto di qualità all’inizio del ‘300, quando, col nome di cocche, dal Mare del Nord sono intervenute nel Mediterraneo, e devono il loro successo ad una velatura assai più semplice ed al timone incernierato a poppa. Quelle presenti a Porto Conte, dice Matteo, avevano ben 400 balestrieri a bordo ciascuna. Con questi due tipi distinti di unità da guerra, le tattiche erano semplificabili al massimo: galera contro galera, un inseguimento, poi uno scon-15 tro tra le compagnie di balestrieri, infine speronamento o aggancio coi rampini e lotta ad armi corte, su un ponte che talvolta si cercava di rendere scivoloso con sapone liquido. Dopo i tanti trattati bizantini di arte della guerra, il Basso Medioevo ce ne offre pochi, in Occidente, ed il più diffuso, latino e tradotto quasi sùbito in catalano, è “De Regimine Principum” di Egidio Romano, che a navi e batallas de mar dedica 10 comandamenti o suggerimenti: l’uso di materie incendiarie in vasi lanciabili, spionaggio i ricognizioni, spinger contro terra il nemico che si vuol attaccare, il bolzone ( “un fust long … ferrat …”), frecce a punta larga per lacerar le vele, armi falciformi contro i cordami, grappini, vasi di calcina, vasi di sapone, sabotatori subacquei, armati di trapani, ma anche di frecce e di pietre. Cristoforo De Grassi, Il porto di Genova (1481) Gli schieramenti, diciamo così, fissi perché legati con catene, corde o per mezzo di remi, s’affrontavano, inizialmente, con una guerra di logoramento, come due bastite contrapposte, appena appena rese mobili da 16 monche alucce di qualche decina di remi all’esterno e, se tutti gli alberi non erano stati abbattuti e messi nella corsìa centrale sopraelevata rispetto ai banchi dei vogatori, da poche vele. La funzione delle galere non affrenellate era di provocazione, di contributo all’indebolimento del nemico ad un tasso minore di rischio.

Chi pensava di aver prevalso in questa fase, poteva allora azzardarsi a stormo, a battaglia grande, a giornata. Le poche unità sottili (galere minori, seppur non erano gatti, o ghianzeruole o ganzaruoli) ebbero, anche in quest’occasione, il còmpito che dicevamo, e che Villani definisce (altrove, ma va bene pur qui) cominciare lo stormo a modo di badalucco (provocazioncella ed anche scaramuccia). Nessuna delle due parti voleva impegnarsi troppo : gli alleati che, benché più numerosi, ridottavano i Genovesi, e, soprattutto, dovevano tener le loro grandi capital ships, le cocche, all’àncora per i venti fastidiosamente contrarî. Né s’azzardavano li Zenoesi impediti per lo soperchio de’ loro nimici, e la cosa (veniamo a dire, il badalucco) andò avanti dalla mezza terza alla mezza nona: bref, dalle 10 alle 13. L’assaggio indolore cominciava a sembrar di buon auspicio per Grimaldi che già ordinava un assalto risolutivo, quando, a detta del Villani, il Cielo diede dimostrazione di schierarsi coi Catalano-Veneziani per punir la superbia dei loro avversarî, che erano quegli stessi che Dante definiva uomini diversi d’ogne costume, mettendo in imbarazzo i dantisti che non riuscivano a trovare una motivazione, che pur poteva essere nella diffidenza dei Fiorentini, come di chiunque altro, per uno straniero che prospera non molto lontano dai confini … ma pure è semplice come fare star in piedi l’uovo di Colombo: già nel ‘200 poeti provenzali ed altri notavano come i Genovesi erano caratterizzati da continue discordie interne: “diverso”, poi, etimologicamente, vuol dire “sviato” e “costume” all’epoca, poteva avere anche tutti i significati che ha ora, ma ne aveva uno in più: accordo, benevolenza, affetto tra fidanzati, persino flirt: quindi Dante sulla scia di tanti predecessori, ci dice non che i Liguri della Superba seguissero usanze stravaganti o uniche al mondo, ma che erano ben lontani da qualunque tipo di concordia civile.

Tornando al Cielo che punisce la superbia dei Genovesi, avvenne, più prosaicamente, che il vento, come accade sovente in Sardegna, cambiò senza aspettar la fine del giorno: le vele delle cocche si gonfiarono, e le loro ciurme si diedero a salpar le ancore, che potevano esser financo doz-17 zine, data la mole delle veliere, e ad apparecchiare i loro dardi, lance e pietre, C’è chi insiste, a questo punto, che le armi da fuoco si facevano sentire da un pezzo in Europa e sui mari, e, nell’Arsenale di Venezia vi era un reperto che si diceva essere stato quel giorno in acque algheresi (poi disperso dopo che “l’ultima ora è venuta”, saccheggiato dagli Austriaci nel ’49). Ne dubitiamo, e siamo comunque, secondo il nostro esil parere, in quell’epoca neutra tra la certezza dell’assenza, almeno sulle navi, dell’arma nuova e diabolica, e la sicurezza della sua presenza, quando, nella guerra di Chioggia, essa fa rimbombar la sua voce nel Canale di Malamocco e nelle pagine del Chinazzo: e da Porto Conte è passato un quarto di secolo. Anche nelle pagine di M.eo grande è, similmente, anzi ismisurato, il romore. Ognuno dei contendenti aveva il suo grido, quando non più di uno, per incitamento, minaccia e contumelia: alor! ALOR!, San Marco!, Cala cala a la mort a la mort! , De’ n’aye e Santa croxe!, Porci levrosi!, Santa Maria delle Scale!, San Zorzo!, Cala cala a la carn a la carn!, Cani rognosi!, ed infine quello che, a coscienza dei Genovesi era l’ingiuria più sanguinosa per i cari, vecchî nemici veneziani: Gente a sodi!, vale a dir ciurme assoldate che non per il comune o la “compagna” combattono, ma solo per denaro, e reclutate in altre riviere: loro, gli Zenoesi, erano di tutte le famiglie la metà de’ più cari e nobili cittadini … Galera veneziana nella battaglia di Curzola (stampa ottocentesca, The Granger Collection, Encyclopaedia Britannica) 18 Chi vuol aver un’idea di quanto una cocca sovrasti una galea, guardi il trionfo della flotta catalana nel porto di Napoli sotto il Mastio Angioino nella cosiddetta “Tavola Strozzi”: le galere impavesate, incastellate e coll’albero e l’antenna alzati, ed anche le rotonde cocche: fate conto, un coccodrillo ed un elefante. Spinte dallo scirocco, le 3 grandi unità presero ad attaccare, una ciascuna, altrettante remiere genovesi, di cui c’era da aver solo un moderato timore: le raffiche dei proiettili parevan grandine fatta volar dalla tempesta.

Benché si difendessero strenuamente, ed i balestrieri si battessero all’altezza della loro fama, fedendo, e magagnando che è peggio molti nimici, le galere furono presto mise in fondo e, poco dopo, le cocche ne ruppono alcuna altra. Porto Conte in un disegno per Diario di Viaggio Fabbroni sec.XVII Poteva ora avanzare anche lo schieramento che aveva al centro le sopragalee (ammiraglie, oggi come oggi) di de Cabrera e di Nicolò Pisani, e la sorte rimettersi un tantino alla pari per i superstiti di Grimaldi. Ma sembra che sia stato proprio costui a perdersi d’animo e ad adottare ancó- ra un altro espediente, però per ritirarsi. 19 Da una galera all’altra, in modo che anche il nemico udisse, diede ordine che si tentasse di prender l’avversario alle spalle con la sua ammiraglia, altre 10 immediatamente sciolte, e con le 8 che avevan badaluccato all’inizio. Nel sentire e nel vedere ciò, Catalani e Veneti ebbero quell’attimo di esitazione che occorreva a Grimaldi (e che confermerebbe l’ipotesi della formazione alleata protetta solo da un lato dagli speroni) anche perché già imbruniva) e non poterono che lasciarsi sfuggire, sulla rotta per Genova, ben 19 nemiche. Le circa 30 rimanenti, vistesi abbandonate dall’ammiraglio loro, senza più colpo fedire, si resero prigioni con molti nominati grandi e buoni cittadini di Genova, per un totale di IIIM . E morti ne furono e annegati colle ciurme più di IIM . Alghero, et altre castella che tenieno i Doria e ·Malaspina in Sardigna s’arenderono a’ Catalani e le galere del Grimaldi mœstæ redierunt Ianuæ (così la Cronaca dei fratelli Stella).

Termina qui la narrazione. Deo gratias

 

Paolo Cau