Alcuni concetti si sono affermati concordemente: uno di questi è che gli uomini siano stati privilegiati, con i condizionamenti del paese d’origine e dell’epoca, nei ruoli di comando. La donna è un essere ragionevole e sensibile, ma si è spesso trovata in una situazione di dipendenza e di essere, o addirittura sentirsi, inferiore all’uomo, essendo obiettivamente più debole e più portata al sacrificio.

Siamo purtroppo consapevoli che la presunta superiorità del maschio nella specie umana è attualmente non di rado espressa in violenza e possesso, talvolta in disprezzo, mentre è venuta a mancare la forza protettiva. Virtù e conoscenza rendono in ogni modo l’umanità più civile e meno brutale e, tornando indietro nel tempo, sembra che queste capacità non mancassero ai Protosardi. Estremamente importante il ruolo della donna: il simbolo è la figura della madre con la mano destra alzata in atto di preghiera-saluto e il figlio morto o gravemente malato in grembo, resa con grande drammaticità nel famoso bronzetto di Urzulei, denominato “madre dell’ucciso”. Fa venire in mente, con le debite proporzioni e prospettive storiche, la Pietà di Michelangelo.

L’attività della donna di allora era legata al focolare, come in tutte le società preindustriali, e inoltre alla cura della crescita e all’educazione dei bambini, alla produzione di vasellame, alla raccolta di frutti e erbe selvatiche e all’allevamento degli animali da cortile. Il suo ruolo nella famiglia e la sua affettività erano grandemente considerati. La solennità e la fierezza della donna sarda, ben inserita nel suo contesto tribale, rende acuto il contrasto con la donna attuale, spesso sola e costretta in parti di donna-oggetto, che finisce per sminuire la propria potenzialità.

La vita di allora era comunque senz’altro più difficile dell’attuale, l’economia e la medicina meno sviluppate, le carestie e i combattimenti assai frequenti, gli oggetti di consumo infinitamente più rozzi e poveri. Le possibilità di variare i propri compiti erano limitate al minimo, perché la società era più semplice dell’attuale. I bronzetti e le statuette in argilla raffigurano donne d’alto rango, vestite con lunghe tuniche e avvolte in scialli e mantelli, e donne di bassa estrazione, vestite con tuniche più corte, che recano in testa ceste o anfore. Non mancano alcune figure di sacerdotesse con cappelli a punta e larga falda, coinvolte in gesti di preghiera e di adorazione nei confronti di divinità da identificare nelle forze della natura, come acqua, fuoco, cielo, toro.

Ci si può fare un’idea dell’esistenza delle donne dell’età del bronzo e del primo ferro con la lettura dell’Odissea, che narra le gesta di Ulisse, vissuto contemporaneamente ai Nuragici. Ulisse, come altri Greci, Etruschi, Egiziani, era un navigante e non è improbabile che anche i Protosardi andassero per mare, con tutte le conseguenze che la marineria comporta. È invece più che verosimile che le donne restassero a terra, perché erano legate alla famiglia, alle incombenze domestiche e al bestiame. Andava per mare una minoranza di uomini validi, altri praticavano la transumanza, come Ulisse andavano incontro a pericolose avventure, forse come lui volevano tornare al loro villaggio.

Tornare alla loro vita, semplice solo in apparenza, alle donne scelte per compagne, ai figli, ai cani, alle mandrie. Allora il villaggio costituiva un microcosmo e si era ben lungi dal “villaggio globale” in cui siamo destinati a vivere. La donna in epoca nuragica lavorava in casa, e lo evidenziano gli utensili individuati come accessori: le fusaiole, le macine per il grano, le stoviglie; sono stati trovati anche alcuni specchi ovali in lamina di bronzo, talora finemente decorati, collane in vaghi di bronzo e di ambra, braccialetti in argento e bronzo. Le relazioni amichevoli e gli scambi con i popoli insediati sulle coste del Mediterraneo, attestati da ceramiche e bronzi sardi in Etruria e nelle isole Eolie e da oggetti di importazione in Sardegna, che dovevano ruotare intorno alle materie prime presenti nell’isola e ai suoi approdi lungo le coste, favorirono incontri fra donne sarde e stranieri e non sono improbabili contratti matrimoniali politici per ingraziarsi i principi forestieri.

La donna, tradizionalmente portatrice di cultura, intesa come trasmissione di usi e costumi, ovvero in senso antropologico, contribuì in tal modo a formare un clima d’internazionalità e di tolleranza reciproca, presto interrotto dal sorgere degli imperialismi di Cartagine e Roma.

Per concludere, quindi il ruolo della donna nella civiltà nuragica fu molto incisivo e aveva compiti differenti rispetto all’uomo. Il suo potere però era limitato alla casa e a responsabilità tribali ben precise, mentre il potere “politico” era senza dubbio, come testimonia Omero, in mano a uomini guerrieri. Allora la politica era strettamente legata al comando militare e quindi più consona alla determinazione e all’aggressività maschile.

Le donne sarde, nel corso dei secoli, sono state veramente “isola nell’isola”?

Probabilmente sì, ma insularità non significa solo isolamento: indica una particolare forma di cittadinanza, sarda e femminile, che ha portato, nel personale e nel pubblico, alla realizzazione di importanti processi di auto-identificazione e di crescita. La storia dell’emancipazione femminile è stata spesso dolorosa non solo in Sardegna ma nel meridione, dove le condizioni economiche e sociali hanno imposto tempi di crescita più lunghi che altrove. Il fascismo aspirava a dare della situazione italiana un’immagine omologata e patinata.

Le donne antifasciste venivano emarginate, come risulta dai documenti della Polizia che, anche quando si riferivano a donne, venivano compilati al maschile e dal fatto che negli stessi documenti venivano spesso definite “donnicciole” quelle che partecipavano alle numerose manifestazioni antistatuali, o per chiedere “pane e lavoro” o per protestare contro le tasse. Vere storie singolari di donne che hanno vissuto sino in fondo la propria militanza antifascista: sarde e non come, tra le altre, Mariangela Maccioni, Graziella Secchi, Antonietta Pintor Marturano, Nadia Spano, Bianca Sotgiu, Joyce Lussu.

Diversi studi hanno evidenziato quanto siano complicati e ambivalenti i processi di crescita verso la modernità. Sul piano del costume, si sottolinea la difficoltà della donna sarda quando ha iniziato a vestire alla “cittadina”, mettendo in ridicolo la vita paesana, vagheggiando la vita continentale. A dimostrare ciò è una famosa rappresentazione letteraria, “Cosima”, il romanzo postumo di Grazia Deledda. In esso vengono descritte due fotografie: la prima contiene un’immagine della scrittrice corrucciata, “sarda”, la seconda un’immagine urbana, costruita sui modelli propositivi.

Anche le artiste sarde, in contesti diversi, hanno sperimentato la difficoltà di affermare se stesse in un mondo che privilegiava la creatività maschile. Edina Altea si è proposta con un’immagine di una donna bambina, autodidatta, legata alla raffigurazione di temi sardi, in un’epoca in cui l’industria culturale nazionale esigeva un’immagine della Sardegna primitiva e selvaggia.

Francesca Devoto, invece, ha proposto un’immagine diversa, seria e introspettiva, quasi maschile. Il processo che ha portato le donne sarde da un ruolo tradizionale (in cui lo spartiacque tra il maschile e il femminile era netto, e alle donne veniva riservata la sfera della “domesticità”) a una difficile modernità, è stato lungo. Il doppio ruolo, la doppia presenza, anzi le “molte” presenze, dal momento che molteplici e incerti sono i modelli di riferimento. In Sardegna è stata decisa la rottura con il mondo tradizionale contadino avvenuta negli anni Cinquanta con un atto di disobbedienza, quando le ragazze hanno detto “no” alla famiglia patriarcale e “sì” alla scuola ed al lavoro non contadino. Si vedono di conseguenza donne impegnate direttamente nell’emigrazione, nella lotta al fascismo e al nazismo, nella partecipazione attiva alla vita politica nel periodo della Costituente. Nel delicato momento storico che l’Italia attraversa, le donne possono lasciarci un’eredità importante.

Massimiliano Perlato

 

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Massimiliano Perlato
Author: Massimiliano Perlato
Di madre sarda, è da sempre legato all’isola per vincoli affettivi e per passione pubblicistica. Nato a Saronno, vive la Sardegna “al di là del mare” con un occhio di riguardo sul mondo dell’emigrazione sarda organizzata che sin dalla giovane età ha frequentato. Per le associazioni sarde presenti sul territorio nazionale ma anche all’estero, dal punto di vista giornalistico è diventato un punto di riferimento.
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