In Sardegna viviamo con una contraddizione gigantesca.
Da una parte proclamiamo di essere un popolo orgoglioso, forte, speciale, portatore di valori superiori e di una cultura millenaria indomita. Dall'altra viviamo una dipendenza economica strutturale, con un PIL pro capite tra i più bassi d'Europa, un'emigrazione giovanile che ci svuota di migliaia di giovani ogni anno, un'economia dipendente dai trasferimenti pubblici, intaccata sempre più dall'inflazione. La sociologia dice che siamo orgogliosi e l'ISTAT che siamo poveri.
E queste due cose non dovrebbero stare insieme. Normalmente non stanno insieme. La povertà prolungata erode l'orgoglio, perché l'orgoglio si nutre di realizzazioni concrete. Ma noi abbiamo trovato un modo per far convivere le due cose senza che la testa ci esploda. Abbiamo aggiunto un terzo elemento che risolve la contraddizione: la nostra povertà non è un fallimento e non è semplicemente il frutto delle nostre idee e colpe, no, è una scelta morale. Molti di noi sostengono: potremmo essere ricchi a 360 gradi ma abbiamo detto no. Perché abbiamo valori più alti -quasi francescani- e non siamo suscettibili alla materialità del denaro.
Ed ecco che la contraddizione scompare.
Non siamo poveri E orgogliosi, siamo poveri PERCHÉ orgogliosi.
La povertà diventa la prova dell'orgoglio, non la sua negazione. Questo meccanismo psicologico funziona perfettamente. E la storia di Ovidio Marras, ora portata al cinema da Riccardo Milani con "La vita va così", è diventata l'icona perfetta di questa narrazione. Il film racconta di un pastore che per quindici anni ha resistito alle offerte milionarie di una cordata di imprenditori che volevano costruire un resort a Capo Malfatano. Ha detto no, ha portato la battaglia in tribunale, ha vinto. La Cassazione ha fermato i lavori. Il progetto è fallito, gli immobili vanno demoliti.
Ma cosa c'è oggi a Capo Malfatano? C'è un ambiente incontaminato? C'è un allevamento di bovini che vende carni genuine ai locali e ai turisti? Ci sono strutture ricettive sostenibili? magari gestite dai giovani sardi grazie alle quali non emigrano ma vivono a casa loro con un reddito dignitoso?
No. Ci sono strutture fatiscenti, scheletri di cemento mai demoliti "che non vede solo chi non le vuole vedere". Opere incompiute che arrugginiscono sulla collina, costruite con materiali che si degradano con un potenziale inquinante altissimo. C'è il peggio dei due mondi: il cemento e l'abbandono. L'ambiente non ha vinto, perché è danneggiato comunque. L'economia, il turismo o l'agricoltura sostenibile non hanno vinto, perché dopo la morte del Signor Ovidio nessuno ha ereditato o presidia l'ambiente seguendo il modello pastorale e tradizionale (Uomo che ammiro anche io per aver perseguito la libertá e il modello nel quale lui si riconosceva). La comunità non ha vinto, perché Teulada continua a perdere popolazione e i giovani continuano a partire. Non è stata costruita nessuna alternativa, nessun modello di sviluppo diverso. È stato semplicemente fermato quello. E nel vuoto che è rimasto, non è cresciuto niente.
Ma il film non mostra questo.
Non può mostrarlo, perché mostrarlo distruggerebbe la narrazione. Il film mantiene separate due realtà : la realtà simbolica della resistenza, dell'orgoglio, dei valori, e la realtà materiale del cemento abbandonato, dell'economia ferma, dell'alternativa inesistente. E lo spettatore, che ha bisogno di sentirsi bene, accetta volentieri questa separazione. Forse perché unire le due realtà significherebbe porre interrogativi scomodi e impopolari.
Impopolari come scrivere queste righe.
Domande del tipo: Ma c'è qualcuno che in questo disastro non solo non perde, ma ci guadagna? Constatare per esempio che nei NO c'è chi ci sguazza da decenni. Sono per esempio "i garantiti", la classe che è demandata dal popolo per creare futuro e sviluppo ma che vive nel perpetuare il sottosviluppo e gode comunque di emolumenti e privilegi che non sono mai relazionati ai risultati economici.
Non c'è bisogno di cercarli oltre tirreno, è sufficiente osservare l'orda locale, in parte chiamata "classe dirigente" coi curriculum sempre più vuoti e il portafoglio sempre più pieno, proprio perché nessuno misura il risultato in termini di sviluppo che il loro fare crea e non crea. Questa è la grande asimmetria che il pauperismo nasconde: se c'è una parte di Sardegna che dirige e vive benissimo creando il nulla come a Capo Malfatano, che gestisce e si arricchisce creando povertà , allora la retorica del film è funzionale solo a chi guadagna dal modello immobile. Il pauperismo è l'ideologia perfetta per proteggere questa rendita.
Se il valore supremo non è creare ricchezza ma preservare l'identità -su connottu- , allora il "garantito" può giustificare la sua esistenza improduttiva come missione culturale e valoriale.
Se il profitto è moralmente sospetto, allora chi non crea le condizioni per produrre profitto, non solo non ha fallito nella sua missione ma è moralmente superiore.
Se lo sviluppo è "speculazione", allora chi impedisce lo sviluppo è un eroe. Il pauperismo trasforma l'incapacità in virtù e la rendita in resistenza. E chi vive di rendita ha tutto l'interesse a perpetuare questa narrazione, ad applaudire film come quello di Milani , a celebrare ogni no come vittoria morale. La narrazione pauperista serve magnificamente a mantenere in piedi un sistema di rendita che altrimenti crollerebbe sotto il peso della propria oggettiva inefficienza. Finché possiamo dire che siamo poveri per scelta morale, non dobbiamo affrontare il fatto che alcuni sono poveri e altri prosperano proprio su quella povertà . Finché celebriamo il no come valore supremo, non dobbiamo misurare i risultati di chi dirige senza costruire nulla.
Ma c'è chi il danno lo subisce davvero - parte interpretata anche nel film, dall'attore Cullin, per questo ruolo selezionato: alto, bello e competente-. Sono i giovani di Teulada -non diversamente dai giovani sardi- costretti ad emigrare per mancanza di possibilità o per mancanza di possibilità all'altezza dei propri studi e delle proprie competenze. Sono i bambini che non nasceranno, figli della sterilità demografica che dipende anche e soprattutto dall'economia. Perché non si fanno figli dove non c'è futuro. Non si mette su famiglia dove non c'è lavoro e servizi. Il danno vero è questo: una generazione dopo l'altra che se ne va o che non nasce proprio.
I dati demografici sono implacabili. Migliaia di giovani -i più formati- emigrano ogni anno. Il saldo naturale è negativo di diecimila persone. A questi tassi, in trent'anni la popolazione attiva si dimezzerà . Ma mentre questo accade, mentre la Sardegna si svuota letteralmente, noi celebriamo film su chi ha detto no come unica forma di resistenza senza nemmeno accennare alla costruzione di una visione del futuro. Celebriamo il non fare senza dire "cosa fare".
Nel mentre, 40.000 giovani sardi (età 15-29 anni) sono classificati come NEET, ossia: non lavorano, non studiano e non sono in formazione, mentre tanti giovani con altissima formazione vanno via, tra questi c'è certamente chi capisce il messaggio implicito di questa retorica -capire che qui il valore supremo non è costruire sviluppo prendendoci responsabilità e rischi ma preservare il passato fine a se stesso. Quindi non illudiamoci che il pauperismo sia innocuo.
Non è solo una narrazione consolatoria che permette agli adulti di gestire la dissonanza cognitiva ma è un meccanismo che distrugge attivamente il futuro. Ogni volta che celebriamo un NO senza costruire un sì alternativo, stiamo dicendo ai giovani: qui si resiste finché si può, si demolisce ma non si costruisce mai.
Ogni volta che trasformiamo la povertà in virtù, stiamo dicendo loro: l'ambizione economica è moralmente sospetta.
Ogni volta che attacchiamo chi prova a costruire chiamandolo speculatore (a prescindere dal come ma solo in base al quantum) stiamo dicendo loro: meglio non provare. E loro il messaggio lo ricevono forte e chiaro. E partono, scappano, partono e ancora scappano!!. E hanno ragione a farlo.
Nella narrazione del film "La vita va così" e soprattutto nella presentazione degli attori non poteva mancare la compiacenza sui luoghi comuni del continentale nei nostri riguardi. La scelta dell'attore protagonista, pastore di ottantaquattro anni con la sua statura ricercatamente minuta e il suo parlare "spigoloseggiante", non è casuale. Sostiene esattamente questo stereotipo, anche nella fisicità esibita nei Red carpet. È il buon selvaggio, il primitivo nobile, l'ultimo custode dei valori perduti dei sardi.
È lo sguardo che si compiace della propria superiorità nascondendola dietro il paternalismo ammirato, che esibisce un signore anziano come si fa con un bambino nel primo giorno di scuola. Il colonialismo culturale che si materializza, come la natura infestante, si insedia soprattutto dove non cresce nulla. L'erba cattiva attecchisce dove non si è capaci di coltivare erba buona, perché l'erba buona, con le sue radici profonde e la sua crescita vigorosa, impedirebbe all'infestante di trovare spazio. La politica del "non far crescere nulla" crea esattamente lo spazio per la mal erba. Ed è quello che è successo in Sardegna.
Non abbiamo coltivato economia forte, imprenditorialità diffusa, classe dirigente frutto di competenza o perlomeno di "gavetta". E in questo vuoto si è insediato tutto: la dipendenza da trasferimenti, la cultura della rendita, lo sguardo coloniale che ci vuole pittoreschi e inoffensivi, soprattutto quando ci sono da amministrare risorse e ricchezze. "Guardate, loro sono così, semplici, legati alla terra, non capiscono il business. Dev'essere questo pabulum che ha determinato il cachet dell'attore protagonista (rivelatosi un'ottima attore) che si è lamentato della paga bassa - che gli ha permesso di rinnovare il bagno di casa- no male per essere l'attore protagonista di un film che sta macinando incassi milionari.
Insomma, per l'ennesima volta si materializza, l'orientalismo di Edward Said. Lo sguardo che esotizza, che folklorizza, che trasforma in spettacolo valoriale ciò che dovrebbe essere riconosciuto come fragilità sistemica. E noi, invece di ribellarci a questo sguardo costruendo la nostra strada, (alternative concrete) lo abbracciamo. Lo facciamo nostro. Trasformiamo lo stereotipo paternalista (a tratti razzista) in identità orgogliosa. E applaudiamo quando quel pastore, piccolo (scelto in primis poiché piccolo) viene portato sul red carpet di Roma, perché ci sentiamo accettati. Senza capire che siamo rappresentati esattamente come il suprematismo culturale ci vuole: innocui, pittoreschi, fuori dal tempo. Prova che non serva più costringerci alla subalternità , lo facciamo noi stessi. Quello che rende tutto questo particolarmente preoccupante è che non è un episodio isolato. È un sistema, un modo di funzionare che si ripete, si replica, si autoalimenta.
E lo vediamo chiaramente nella questione dell'energia rinnovabile, che sta accadendo proprio ora con le stesse identiche dinamiche. I numeri sono implacabili. Il sistema lo nasconde sempre (si parla sempre di produzioni di nicchia) ma basta leggere le pubblicazioni statistiche per rendersi conto che la produttività agricola lorda per ettaro in Sardegna è di circa mille euro (fonte RICA 2023). In Italia la media è tremila (in trentino sette Mila) - in sostanza abbiamo la redditività per ettaro tra le più basse d'Europa-. L'agricoltura sarda, in particolare la pastorizia, sopravvive in termini percentuali -più di tutte le altre regioni - in dipendenza a trasferimenti pubblici, sempre più radi e sempre più in ritardo, che rappresentano il 45% del reddito delle aziende. Noi agricoltori/pastori conosciamo la nostra fragilità .
Sappiamo -senza mai dirlo- che quella terra rende poco, che è faticosa, che è dipendente, che è falcidiata da burocrazia e tasse e che i figli lo sanno e non vogliono sostituire i padri ma andare via. Per questo motivo, quando sono arrivate le proposte per gli impianti fotovoltaici ed eolici, molti hanno visto l'unica opportunità per il futuro. Vendere o affittare terreni che rendono mille euro l'ettaro -dopo fatiche e calvari indicibili- per quattro , cinquemila euro garantiti per vent'anni. Sono stati firmati contratti preliminari, tra agricoltori/pastori e fondi di investimento del settore delle rinnovabili per circa centomila ettari. Centomila. È vero che una piccolissima parte riguardano i terreni nei quali passano o sorgono le infrastrutture elettriche, i quali sono soggetti ad esproprio per pubblica utilità , per il resto (99%) , a vendere, sono consapevoli proprietari terreri che cercano una via d'uscita dalla povertà di opportunità che il sistema del sottosviluppo ha determinato, lo stesso sistema che oggi fa finta di cascare dal pero, sviluppando una narrazione in linea con le opportunità di consenso e che si focalizza esclusivamente intorno ai modi per dire no: La pratobello dice no al 100% e la legge 20 dice no al 99%. Non si deve fare nulla. È speculazione.
Sono i continentali che vengono a sfruttarci. Rovinano il paesaggio. Distruggono la terra. E certamente moltissimi progetti sono inaccettabili, impattanti e frutto di becera speculazione. Ma la realtà rivelatrice, sulla quale questa epistola vuole mettere il focus è che nella discussione pubblica non è emersa nemmeno una proposta costruttiva. Non un piano -benche meno legge- che dicesse: facciamolo noi. Decidiamo dove è accettabile e dove no. Creiamo una società energetica regionale che controlli la filiera. Investiamo nella rete. Formiamo tecnici sardi. Niente. Solo variazioni e sfumature del no.
Nel frattempo la Sardegna ha l'energia elettrica più cara d'Europa, uno dei fattori che contribuisce al suo sottosviluppo.
La produce bruciando carbone importato, petrolio importato e ora gas liquefatto importato. Le centrali a carbone di Portovesme e del Sulcis continuano a funzionare, a inquinare, a costare. Persino l'energia più pulita (l'idroelettrico) ha le sue contraddizioni, è per esempio, responsabile di uno spreco d'acqua enorme in un'isola dove l'acqua è vitale per le persone e per lo sviluppo della sua economia agricola, con bacini che buttano in mare milioni di metri cubi l'anno, gestiti secondo logiche di mercato energetico (in totale servitù) e non secondo necessità territoriali. Ma anche questo non si può dire, perché rovinerebbe la narrazione. Anche in questo caso, la conclusione è un NO all'energia rinnovabile (sulla quale si gioca il futuro delle economie moderne) mentre continuiamo a bruciare carbone come nel 700. Diciamo no alla possibilità di controllare la filiera energetica mentre paghiamo l'energia più inquinante e cara d'Europa a società che non controlliamo e che dichiarano i profitti in Olanda e Lussemburgo.
E soprattutto diciamo no senza costruire nessuna alternativa concreta. Perché costruire è difficile. Richiede merito, competenze, capitali, coordinamento, visione, rischio. Dire no è facile, immediato, ti fa sentire puro. E non richiede di uscire dalla zona di comfort della rassegnazione assistita (del "così va la vita") nella quale siamo precipitati.Â
di Michele Virdis