Inizia finalmente la terza e ultima giornata del festival, organizzato e gestito in maniera impeccabile, e con un buon lavoro di selezione dei nomi che lo hanno animato, ma che fino a questo punto non aveva regalato forti emozioni e grandi slanci di entusiasmo. Nella serata conclusiva sembra riporre maggiori speranze anche il pubblico, che per fortuna accorre più copioso rispetto alle sere precedenti, riuscendo a riempire finalmente il parterre del Teatro Civico e rievocando i fasti delle edizioni precedenti, quando anche i costi dei biglietti erano più abbordabili. La line-up ha un taglio più rock, è decisamente più appetibile e nutrita, e promette bene dal punto di vista delle esibizioni live. Le aspettative non saranno infatti disattese.

 

Aprono i nosnow/noalps, band proveniente direttamente dalla Repubblica di Malta, per i meno ferrati in geografia, uno stato insulare indipendente nel bel mezzo del Mediterraneo, poco più grande dell’hinterland cagliaritano e con grossomodo lo stesso numero di abitanti. Fa così capolino, sullo scranno principale del KME, una band con tutti gli attributi ai loro posti, ivi compresa finalmente una batteria. I ragazzi mettono in scena un pop-rock di qualità, molto in debito con gruppi come Ok Go Kaiser Chief, nonostante le forti componenti disco e funky anni ‘80, certificati anche dalla presenza di una keytar (una tastiera a tracolla) che non si vedeva, per fortuna, dai tempi di Sandy Marton.

A ogni modo si dimostrano subito molto a loro agio sul palco, dimostrando oltre a buone capacità compositive e un alto livello tecnico, una esperienza che non rispecchia la loro giovane età e un’ottima presenza scenica, impreziosite entrambe dalle due brave vocalist che accompagnano e, talvolta, sostituiscono il cantante e frontman Nick Morales. Sfoderano belle idee, che sembrano ben chiare nella loro testa (e probabilmente anche in quella del loro produttore) e dimostrano, come se avessero letto il pensiero di molti dei presenti, che anche da una piccola isola nel centro del Mediterraneo possono nascere grandi gruppi in grado di dire la loro in contesti ben più importanti da quelli in cui provengono.

Smaltito l’entusiasmo iniziale, è il turno di Enrico Cipollini, talentuoso cantautore ferrarese che ha militato in diverse formazioni. Oltre che cantautore, Enrico è anche un ottimo chitarrista blues (youtube docet), anche se non sembra ne abbia voluto dare dimostrazione nell’acoustic stage. Il suo è un buon country folk, con qualche sfumatura blues, che ricorda vagamente il Cat Stevens degli esordi. Regala comunque una esibizione onesta e pezzi assolutamente ben strutturati, che però nulla aggiungono a quanto già detto da chi lo ha preceduto.

La ridiscesa verso il palco principale concede una ulteriore piacevole sorpresa: la batteria è sempre al suo posto e sul palco ci sono quattro giovani alternativi, con in apparenza (ancora) qualche sinth, forse, di troppo. Loro sono i Drink To Me, band torinese che già da qualche anno fa ben parlare di sè. Le prime parole pronunciate dal cantante, Marco Bianchi, al microfono (“Ciao io sono Marco”) stupiscono piacevolmente un po’ tutti e i suoi inviti ad abbandonare le poltroncine per andare sotto il palco a ballare, suona come una liberazione. Il pubblico obbedisce e non si fa pregare per ballare il loro buon elettro-pop, potente, ben cadenzato e con qualche vena shoegaze. Marco, in tutta risposta, scende dal palco, microfono in pugno, e inizia a elargire carezze e abbracci ai presenti, rompendo il muro che aveva separato fino ad allora artisti e pubblico del KME, che da quel momento in poi non abbandonerà la posizione guadagnata con poca fatica e tanta empatia.

Molto poco di acustico hanno, a dispetto del palco che gli è stato assegnato, i nostrani Pussy Stomp, power-duo formato da Mauro “Vanvera” Vacca, alla voce e al basso, e Roberta “Skip” Etzi alla chitarra, belli da vedere e da sentire. Caratterizzato da gran bei suoni e ritmi pestati, grazie anche (caso più unico che raro in questo festival) a un uso opportuno e calzante della drum machine, il sound del gruppo rievoca il meglio della tradizione del rock’n’ roll, marcio e acido, a cavallo tra Tom Waits e Jon Spencer. I pezzi filano via lisci, gli strumenti sono lì esattamente dove devono essere, senza strafare, e tutto funziona alla grande. Rock’n’Roll, what else?

Tra i nomi più attesi di tutta la rassegna c’erano senza dubbio i Clinic, band formatasi negli ambienti della psichedelia di Liverpool, sul finire degli anni ‘90. Si presentano, come loro solito, vestiti da chirurghi, proprio come i nostrani (e grandissimi) Plasma Expander, che, a onor del vero, hanno dichiarato di non conoscere i Clinic quando hanno adottato quel look.

Si esibiscono in svariati e inconsueti avvicendamenti sul palco, con i diversi musicisti che si scambiano ruoli e strumenti con disinvoltura, che passa al sinth, divertendo e stupendo piacevolmente a ogni cambio. Regalano momenti tediosi ma anche vigorose sferzate Rock’n’Roll, con ritmi potenti e ossessivi, e accostamenti strumentali tra i più improbabili, arrivando ad affiancare, a sinth e tastiere, il clarinetto, l’armonica e persino la diamonica.

In alcuni passaggi la loro musica rievoca, con tutti i doverosi distinguo del caso, i Devo dei bei tempi che furono. Il concerto è lungo, compatto e energico. Il pubblico gradisce e, alla fine, si reca appagato a sentire cosa offre l’acoustic stage.

Al piano superiore l’atmosfera è più soft, e dopo l’esibizione dei Clinic è decisamente quello che ci vuole. Le luci soffuse incorniciano la siluette Lail Arad che si annuncia al pubblico e, in versione voce e chitarra, suona un mix ben equilibrato di pop, folk, blues e country, sfoderando bella voce, occhi cerbiatti, buona dose di ironia e personalità da vendere nonostante la giovanissima età. Racconta aneddoti vari legati alle canzoni, scherza con il pubblico e dedica uno dei suoi pezzi niente meno che al suo maestro, metaforicamente parlando, Leonard Cohen. Uno sprazzo di freschezza che spezza i ritmi al momento giusto.

Rincuorato dai canti gioiosi della cantante londinese, il pubblico torna al main stage dove viene accolto da un muro di feedback e distorsione che esce dalle casse. Una chitarra suona da qualche parte ma il palco resta deserto. All’improvviso irrompe un alieno che indossa una tutina da circo, un casco a coprirgli testa e volto, con una cornetta del telefono che funge da microfono, conficcata nella visiera e collegata, via cavo, al casco stesso.

È mister Bob Log III e, dopo appena un minuto di esibizione, vince tutto, premio della critica, della giuria e televoto, sbaragliando chiunque, pubblico, giudici e security. Mio padre (e anche vostro padre) lo definirebbe senza mezzi termini un matto totale; ma chi era sotto il palco, che sa guardare oltre, vede in Bob Log un vero e proprio animale da palcoscenico. Un bluesman posseduto che ogni due-tre canzoni ci tiene a ricordare che “Yeah! I’m Bob Log and this is my fucking guitar!”. Come a dire “è tutto qui, su questa sedia e tra le mie mani”, l’essenza stessa del blues, prima, e del rock and roll, poi. Si assiste a una performance di una potenza eccezionale, dove questo ometto buffo in tutina con strass e calze rosse, regala attimi di ferocia inaudita punk-blues, degna del miglior Jon Spencer, suonando una chitarra segnata dalla furia e dal tempo, seduto su una sedia e dettando il ritmo con una drum machine a pedali e rudimentali percussioni amplificate. Meraviglia. Il pubblico alla fine dell’esibizione non ne ha abbastanza e lo costringe a due bis, che lui regala molto volentieri.

Si chiude così un festival partito in sordina, poi concluso come meglio poteva. Un festival caratterizzato da tante piccole esibizioni, quindi bello perché tante, ma un po’ meno bello perché piccole. Per alcuni dei musicisti che si sono esibiti, gli spazi e la strumentazione messi a disposizione non sono sembrate adeguate a esaltarne le qualità e a consentirgli di esprimersi al meglio, cosa che non è accaduta per altre esibizioni, perfettamente riuscite. Giudizio, quindi, senza dubbio positivo, e credo debba andare agli organizzatori tutti, il ringraziamento per essere riusciti a portare a Cagliari piccoli pezzi di un mondo che ci sembra sempre lontano, ma che, in fondo, così lontano non è.

 

Simone La Croce

(Photo credits Stefania Desotgiu)


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