Francesco Perra è un polistrumentista e compositore di Iglesias e Perry Frank è uno dei suoi tanti esperimenti musicali, probabilmente il più importante e senza dubbio quello per cui finora si è speso maggiormente. In questo progetto, Francesco è riuscito a far confluire ambient, chillout, psichedelia e un pizzico di sano folk-rock. Ha iniziato a comporre nel 2005 e la sua produzione può già vantare cinque album, alcuni dei quali prodotti e distribuiti anche da etichette tedesche e irlandesi, qualche mini-tour nello stivale e diverse partecipazioni a festival e contest di tutto rispetto, come il Karel Music Expò, il premio Andrea Parodi e il SardiniaSound. Compone, suona chitarra e synth, canta, anche se controvoglia, incide, fa il missaggio, cura la grafica dei booklet, e non pago, gira anche i videoclip dei suoi brani. Non necessariamente in quest’ordine e non sempre nei luoghi canonici nei quali queste operazioni vengono effettuate.

Ama le terre nelle quali è nato e cresciuto, facendosi suggestionare dai loro colori e dai loro suoni nella composizione musicale dei brani. Potrebbe andare a cercare fortuna altrove, dove la sua musica possa avere maggiori riscontri e possibilità, ma, come tanti, ha una paura bestia del distacco, più che altro per timore di sentirsi decontestualizzato.

E, per completare lo stereotipo del sardo inappagato (che a mio parere poco si addice al musicista Perry Frank, checché lui ne dica), è anche piuttosto polemico con il pubblico e gli organizzatori degli eventi musicali, e con chi, in generale, dovrebbe sostenere la musica emergente e alternativa, ma che invece non lo fa come dovrebbe

Francesco è una brava persona e un onesto musicista. Crede fortemente in quello che fa e di questo gliene si deve dare atto. Propone musiche non semplici da inserire in contesti socio-culturali numericamente ristretti come il nostro, che forse, per incontrare il favore che meritano, avrebbero semplicemente bisogno di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Come tanti, identifica nell’individualismo e nell’egoismo (presunti) dei sardi, i principali responsabili delle difficoltà che qui si incontrano quando si prova ad emergere, pur riconoscendo, a differenza di altri, i limiti intrinsechi della propria musica.

Personalmente non credo che di questo se ne possa fare una colpa a qualcuno o a qualcosa in particolare. Il circuito culturale sardo ha tantissimi limiti e non bisogna perdere occasione per rimarcarli, ma non credo che ciò sia sufficiente per continuare ad alimentare la favoletta del sardo sempre e solo intento a coltivare il suo orticello, a farsi rodere il fegato dall’invidia, a mettere i bastoni tra le ruote del vicino e a ostinarsi a non voler cooperare per rendere la sua terra un posto migliore.

L’immagine, non del tutto infondata ma sicuramente distorta, che creiamo di noi stessi, e la demotivazione che ne deriva, si nutrono di queste cose, alimentando una spirale autolesionista dalla quale diventa sempre più complicato tirarsi fuori.

Credo anche che tale mito fasullo sia destinato a cadere, e a testimoniarlo sono tutte le innumerevoli iniziative che si moltiplicano di anno in anno, e le reti che si stanno creando, anche se a fatica, tra organizzatori, etichette, associazioni culturali, produttori e musicisti. La Sardegna non è l’Islanda, certo, ma convincerci che anche noi possiamo diventare qualcosa di simile è il primo passo per iniziare a farlo veramente. Perry Frank, con la sua caparbietà e il suo coraggio, ci dimostra, in un certo qual modo, che tutto ciò non è affatto una chimera irraggiungibile.

 

Componi, suoni, registri, fai il missaggio e giri anche i videoclip dei tuoi pezzi. Ritengo che l’ ”artigianato” in campo musicale sia roba per pochi, e trovo che, artisticamente parlando, sia una grande soddisfazione per un musicista. Raccontaci un po’ come avviene questo processo creativo.

Non è mai un processo standard che segue vie univoche; a volte parto da un videoclip, dall’idea di un video o di un tema e ne compongo, di conseguenza, la colonna sonora. Oppure parto da una canzone, da un brano o una traccia e cerco di pensare a delle immagini che si possano adattare al pezzo. Ultimamente ho girato un video dei ruderi industriali dell’iglesiente, cercando di riunire in un unico filmato i principali villaggi minerari, e, sulla base di questo, ho concepito una colonna sonora che accompagnasse le immagini. In questo modo ha preso piede il mio ultimo lavoro “Soundscape Box I” (che ha preso un sonoro 7.5 su ondarock.it, ndr). Il lavoro poi è stato compresso e tagliato, per via della durata, e spezzato in diversi “episodi”, ciascuno dei quali è stato comunque sviluppato in maniera autonoma, tanto nella composizione quanto nel missaggio.

 

Come mai inserisci pezzi cantati, in apparenza distanti in una produzione fondamentalmente omogenea, come quella ambient e chillout?

Io preferisco non cantare. Tra i tanti motivi per cui ho scelto di fare quasi esclusivamente musica strumentale, c’è il fatto che non amo la mia voce e che soffro spesso di mal di gola, ragion per cui non ci posso fare troppo affidamento.

Finora ho pubblicato solamente tre pezzi cantati; uno di questi (Cantu a Merì, ndr), cantato in sardo, è arrivato in finale al Premio Andrea Parodi nel 2012, mentre gli altri due sono risultati finalisti al Festival Sun for Social. Per questi pezzi sono partito da una base ambient e ho provato a cantarci sopra; le parole sono venute da sole e li ho registrati.

Voglio provare a unire la voce alle sonorità ambient, alla ricerca di una sorta di compromesso, possibilmente accorciando i brani, che effettivamente risultano troppo lunghi. Per il momento ho cinque-sei brani cantati e sto valutando se farci un intero album.

 

Nella tua musica si scorgono tantissime influenze, che anche solo ad elencarne alcune, ne dimenticherei troppe. Che musica hai ascoltato da “ragazzo” per arrivare a comporre questi pezzi?

Sono cresciuto con gli anni sessanta, con Beatles, Beach Boys e Rolling Stones. Da adolescente ho ascoltato i Pink Floyd, poi, come tanti della nostra generazione, ho attraversato il grunge, preferendo ai Nirvana, gruppi più psichedelici come gli Smashing Pumpkins. Ho ascoltato tanto anche gli U2 e, grazie a loro, una quindicina di anni fa ho scoperto Brian Eno, un genio, e mi sono innamorato della sua musica. Ho scoperto così tutto il contesto ambient, la musica concreta, John Cage, artisti come Fennesz, come i Boards of Canada, fino ad arrivare ai rumoristi degli anni ’20 come Luigi Russolo o Stockhausen.

 

La tua musica non è per i grandi palchi e non aspira a creare nuovi tormentoni estivi o a schizzare in cima alle playlist radiofoniche. Per chi scrivi? Sembra una cosa facile a dirsi ma hai mai pensato di lavorare per il cinema?

Ho sempre scritto principalmente per me stesso, partendo da un ricordo o da un’immagine che mi ronza in testa e cerco di metterla in musica, più che altro per liberarmene. La mia musica è nata a scopo terapeutico, e sul web, negli anni, ho trovato sempre più persone su questa stessa lunghezza d’onda. Anche durante i live raccolgo molti apprezzamenti e, soprattutto, vendo la gran parte dei miei album.

Al cinema ho pensato più volte, ma, come per ogni cosa, occorrono gli agganci giusti, che al momento non ho. Ho comunque lavorato a diversi cortometraggi e a due spettacoli teatrali per una compagnia di Mestre, durante i quali ho avuto anche la possibilità di esibirmi live.

 

Ciò nonostante, sei riuscito a farti contattare da una etichetta tedesca (la IDEALMUSIK Label), e ad una irlandese (la Psychonavigation Records) che hanno distribuito i tuoi ultimi tre album. Potresti spiegare ai nostri lettori, e in particolare a quelli che non riescono a varcare i confini dell’isola, come sei riuscito con la tua musica?

Ho iniziato pubblicando i miei video su You Tube e entrando in contatto con i vari gruppi dedicati alla musica ambient presenti su Facebook. È stato proprio attraverso quest’ultimo che sono stato notato e contattato dalla Idealmusik nel 2012, cosa che mi è valsa la pubblicazione di un articolo sull’Unione Sarda.

Il disco è poi uscito su tutti i digital store e su Spotify; ne sono state inoltre state stampate 300 copie su cartoncino ecologico. L’anno successivo ho pubblicato un altro disco, in versione digitale, per la stessa etichetta e lo scorso anno è uscito, per l’etichetta irlandese Psychonavigation Records, l’album “Soundscape Box I”; a loro invece ho spedito io il demo, e hanno subito acconsentito alla pubblicazione.

 

Mi ha colpito molto quanto letto in una tua intervista di qualche anno fa “…i primi a crederci (nella musica, ndr) dovrebbero essere gli amministratori locali, che […] investono sempre troppo poco e troppo spesso le varie rassegne, i concorsi organizzati sul territorio hanno le stesse pecche di quelli pubblici: raccomandazioni, incompetenza nell’organizzazione… […] …fare musica qui (e pretendere di vivere facendo musica) è come muoversi in uno stagno con i piedi immersi nel fango. […] …molto spesso sono gli stessi sardi a impedire tutto questo. Speriamo che questo autolesionismo e questa cultura dell’invidia cedano il posto ad una reale passione per la musica”. Io vedo in giro tanta buona musica e tanti ottimi gruppi che suonano nei posti più disparati, pur tra mille difficoltà. Potresti spiegarmi meglio questa tua affermazione?

(Ridacchia, ndr) L’affermazione parte dalla consapevolezza che i sardi sono un popolo autolesionista, e questo si sa; il sardo pensa principalmente al suo orticello, con le dovute eccezioni ovviamente, ma, da quanto posso aver visto io, quello che c’è fuori non desta grande interesse. Questo succede anche nella musica, dove, invece di collaborare, ogni musicista pensa per sé. Ci sono tante piccole realtà, alcune riescono a fare qualcosa di più, ma se sconfini in un altro orticello ti pestano i piedi, musicalmente parlando, e non si sognano certo di mostrare solidarietà.

Questo è abbastanza opinabile…

Dipende anche dal genere. Se proponi musiche alternative non vieni considerato. Solamente una volta mi è capitato di collaborare con altri musicisti affini al mio genere (i Tank U For Smoking, ndr). Ho contattato tanti organizzatori di eventi, ma appena si accorgono del genere che suono, chiudono la porte o non rispondono affatto. Spesso è causa di esclusione anche il fatto che io non abbia un booking, che, generalmente, viene associato ad una presunta scarsa serietà. In Sardegna, che io sappia, sono l’unico a suonare questa musica, e credo che abbiano paura a scommetterci e a concedere fiducia.

Ora sto organizzando una serie di ambient-session, piccole esibizioni live registrate in zone diverse del mio territorio. Ho in programma di farne una trentina, portando con me un generatore di corrente; sistemo l’attrezzatura, suono e filmo tutto quanto, in modo che lo spazio che mi viene tolto da una parte, lo riprendo da un’altra.

 

I pezzi, specie quelli ambient e chillout, grazie anche al supporto dei videoclip, sono particolarmente evocativi e scenografici, senza dover far affiorare il background culturale, che generalmente identifichiamo, spesso a torto, come tradizionale. Questa sembra essere una tua forte presa di posizione e una precisa scelta artistica. E, come tale, assolutamente legittima e inopinabile. Cosa, dei territori dove sei cresciuto, vuoi far emergere con la tua musica?

Ho scritto solo un brano utilizzando la lingua sarda, ma, fino a questo momento, non posso certo dire di essere stato ispirato dalla musica cosiddetta “tradizionale”. Sicuramente traggo ispirazione, come già detto, dai paesaggi e da quello che vedo, però cerco di andare da un’altra parte. Non parto dalla tradizione, ma non ho nulla contro di essa. È solo questione di ispirazione, una questione prettamente musicale. Mi sento molto legato a questi territori dal punto di vista compositivo. Non riesco a immaginarmi in altri luoghi. In città avrei paura di non riuscire più a scorgere l’orizzonte e perdere l’ispirazione. Per comporre ho bisogno di vedere l’orizzonte o di andare in qualche punto panoramico sul mare, solo con la chitarra e il registratore.

 

In conclusione, potresti anticiparci qualcosa che non ci hai già rivelato sui tuoi progetti futuri?

Al momento mi sto dedicando interamente alle ambient sessions e alla registrazione di pezzi in acustico, in cui far confluire influenze ambient e cantato in inglese. Per il resto cerco sempre di portare avanti la mia attività live e mi sto rendendo conto che quando ho la possibilità di esprimermi come voglio, lo spettacolo riesce sempre, dandomi le soddisfazioni e i riscontri che mi aspetto. Ultimamente ho suonato a Modena e a Bologna, riuscendo a vendere tutti i dischi che avevo portato con me, cosa che mi riesce molto difficile in Sardegna. Nonostante tutti continuino ad esortarmi a farlo, non mi sento di lasciare la Sardegna, per la paura di non trovare più l’ispirazione. Forse un giorno cambierò idea ma per ora preferisco tenere qui la mia base operativa.

 

http://www.youtube.com/watch?v=YhqqdPk3XZo

 

Simone La Croce