Ho accettato di scrivere di musica per questa fantastica realtà che è FocuSardegna, a patto (con me stesso) di cercare di contribuire, in un certo qual modo, alla crescita della scena musicale sarda, nel tentativo di dare visibilità a tutte le realtà coinvolte e meritevoli, dai musicisti agli organizzatori, passando per produttori e nuove etichette. In tutto questo mi ero prefisso di privilegiare tutti coloro che dimostrassero un reale interesse per il mestiere più antico del mondo, il musicista, e che lo facessero con coraggio, umiltà e, soprattutto, sincerità, cercando sempre di innovare, rompere gli schemi e emergere dal piattume a cui ci stanno abituando i vari talent che impestano i media. 

Poi mi sono reso conto che probabilmente questo non ha molto senso se non si parla anche di coloro che, con caparbietà, fanno musica da anni, in maniera altrettanto onesta e sincera, onorando ogni giorno quel Dio del Rock’n’Roll che conosce, si, le crisi di valori ma, a differenza degli altri, non sa cosa sia il calo di consensi.

Alberto Sanna rientra in quest’ultima categoria.

Non è decisamente il nuovo che avanza e non propone affatto niente di particolarmente innovativo. A 56 anni, ha passato gli ultimi 30 in giro per la Sardegna, e non solo, a dividersi tra pezzi suoi e reinterpretazioni di musiche altrui.

Alberto, dopo aver militato in tantissime formazioni, oggi carica il suo furgone, mette su cassa, charleston, aste, microfoni, armoniche, ampli e chitarre e parte in solitaria. Spesso sta fuori per giorni, saltando da un paese all’altro, da un locale a un palco. Beve poco e dorme dove lo ospitano. Arriva, monta la sua attrezzatura da busker e suona; spesso per più di tre ore. E quando lo fa gli si legge in faccia una soddisfazione e un godimento di altri tempi, che, a dirla tutta, fa un’invidia bestia al musicista medio. Un appagamento che spesso fatichiamo a vedere nei sedicenni alle prime esperienze con il pubblico, troppo presi da social network, pedaliere, effetti fantasmagorici e altre diavolerie digitali. Alberto fondamentalmente se ne frega. Suona per esistere e per resistere, che in lui si fondono in un’unica cosa. Bavero alzato, basetta old-style, testa alta e umiltà da vendere, quest’anno è riuscito nella titanica impresa di inanellare 40 serate di fila, in quello che lui stesso ha ribattezzato l’Abbocidura Tour 2015.

Ora si è ritagliato questo ruolo di One Man Band, in cui sembra aver trovato la sua dimensione, ma Alberto viene da una lunga gavetta, durante la quale ha suonato con Masoko Tanga, High Voltage/TNT, Sanna R’n’R Breakers, Animanera, All Sun Rockin’ Jive, Radioclash, e ha visto nascere e morire almeno un paio di tzunami musicali, ai quali non siamo più abituati.

 

Ciao Alberto. Hai sempre suonato, con tante band, generi diversi ma comunque discendenti diretti del blues. Da qualche anno a questa parte hai intrapreso una strada un po’ diversa rispetto al passato. Spiegaci cos’è e cosa significa suonare da “One Man Band”?

Ho sempre suonato da solo chitarra, voce e armonica. Tranne qualche interruzione, è una cosa che faccio da quando avevo vent’anni. Prima ancora facevo il batterista, anche con gruppi da piazza. Poi, l’esigenza di scrivere canzoni mi ha portato a scegliere la chitarra e abbandonare la batteria. Dici che discendo dal blues, ma è una cosa inconscia; mi sento figlio del rock anni ‘70, di quando ero un ragazzo, intriso quindi di blues, come quello di Led Zeppelin, Cream e Deep Purple. Tutti mi definiscono un bluesman, tranne me. Ma va bene così.

Suono una batteria con i piedi, una chitarra con le mani, un’armonica con la bocca e canto. Lo faccio da circa 5-6 anni, ma viene da lontano, da quando suonavo la batteria, cosa che mi ha permesso di riuscire a trovare la giusta coordinazione, senza la quale sarebbe stato tutto molto complicato.

Con sola voce e chitarra, soffrivo un po’ e non riuscivo a sentirmi del tutto a mio agio, e questa soluzione mi consente di esprimermi in maniera più completa.

In questo modo riesco a ricreare il suono di una piccola band, ricalcando le mie versioni dei brani suonati con le varie formazioni in cui ho militato, e mettendoci dentro tutti i miei diversi mondi musicali. Che, alla fine dei conti, è uno solo. È un approccio pratico, e comodo, che mi consente di suonare dal più piccolo locale al palco. Conservo sempre delle formazioni attive, ma ora sono molto più concentrato su questa forma.

 

Ma poi, sei davvero l’ultimo One Man Band?

Questa è una mia piccola provocazione. One Man Band è una definizione abusata, specie negli ultimi anni. Tende a definirsi tale chiunque suoni da solo. Dovrebbe invece identificare quel musicista che, in solitaria, riesce a riprodurre il suono di una band. Non sono né l’ultimo né l’unico. Anche se devo dire che questo modo di suonare la batteria è un mio marchio di fabbrica, non ho trovato nessuno che faccia niente del genere. Ho incontrato parecchi musicisti, alcuni bravissimi, che suonano seduti o itineranti con un approccio un po’ più circense, con la batteria sulle spalle azionata da corde legate alle caviglie o alle braccia. Ma l’impatto è diverso. Il mio si avvicina più a quello di un concerto rock.

 

Suoni dagli anni ‘70. A Cagliari ma anche in capitali ben più blasonate del nord Italia e non solo. Immagino abbia visto passare parecchia acqua sotto i ponti, a Cagliari e in Sardegna, negli ultimi 40 anni. Quali sono i cambiamenti più importanti di cui sei stato  testimone? Cosa ti manca e cosa non rimpiangi affatto?

Se ne potrebbe parlare per un mese intero. Trovo però, che la domanda sia mal posta. La percezione del mondo, della musica e quindi del contesto musicale cagliaritano che si può avere a 18 anni non è la stessa di quando hai passato il mezzo secolo. Vent’anni fa avevo un locale, seguivo diverse programmazioni artistiche e conoscevo molto bene la scena musicale. Da quando ho smesso, ho perso contatto con le nuove leve.

Prima non si suonava di più. Si facevano meno serate, che per questo diventavano dei piccoli eventi. Ad un concerto a Tonara ai tempi di Rock Area venivano da tutta la Sardegna. Ora un festival è “solo” uno dei tanti che si fanno nell’isola e difficilmente lo si aspetta per un anno intero.

Lo stesso discorso vale per i locali. A noi, sconosciuti Masoko Tanga, capitava di riempire una discoteca per un concerto rock a pagamento, proponendo, in pre-disco, i nostri pezzi, cosa che a un gruppo di oggi capita raramente.

Oggi si suona molto di più. Non so se sia più o meno interessante di prima, ma non mi sembra ci sia più il mito del concerto rock. Fortunatamente si trovano ancora diversi locali in cui si suona, anche se sono molto specializzati e di nicchia.

 

Durante la tua carriera hai sempre rielaborato e riproposto pezzi non tuoi, cercando sempre di dare loro una tua impronta, spesso cogliendone la vera essenza, altre volte meno. In che modo si può dare un contributo al mondo della musica portando in giro pezzi scritti da altri, posto che sia sempre necessario e che tu voglia farlo?

Prima dell’epopea con gli Animanera, ho sempre proposto pezzi miei e cover di altri musicisti. È stato la base di tutto. È in questo modo che ho imparato a suonare. Non ho studiato. Ho semplicemente frequentato altre scuole. Una di queste sono state sicuramente le cover, e i miei maestri sono tutti quei signori che hanno inciso le versioni originali. Quando una canzone mi piace e sento di volerla riproporre, ne elaboro una mia versione, a volte molto spontaneamente, altre con un idea più razionale o elaborata. È diventato un modo di raccontarmi, cantando qualcosa che mi ha impressionato e mettendoci dentro tanto di me stesso. È indispensabile per me fare delle cover. Le metterei anche nei dischi, ma non ho le spalle abbastanza larghe per bypassare i problemi di copiright (ride, ndr).

 

Vai ancora in giro a suonare AC/DC, Clash, Rolling Stones, Elvis e Bob Marley. Qual è, però, la musica che ti ha segnato ma che non porti in giro?

Ora ascolto pochissima musica e in maniera molto casuale. Più suono e meno ascolto. Però sono riuscito a superare i confini di genere. Per me è diventata più importante la canzone, con la sua struttura ben definita; una cosa che abbia un testo e che racconti in tre minuti una storia, con strofe e ritornelli.

Ho prevalentemente ascoltato gli stessi generi che poi suono in giro, con qualche eccezione. Suono ad esempio una versione di Almeno tu nell’universo, semplicemente perché trovo che sia una bellissima canzone. Quando una canzone è bella, è bella e basta. Anche se non è composta da un rocker, da un bluesman o da un cantautore, che sono le figure a cui faccio riferimento io.

I pezzi che ascolto, ma non ripropongo, fondamentalmente sono quelli, per i quali non ho ancora trovato la gabola per interpretarli come vorrei. Da ragazzo sono stato un appassionato di progressive; è un genere che ho sempre ascoltato ma che non ho mai suonato a livello professionale. All’epoca tutti cercavamo di riprodurlo ma con scarsissimi risultati perché erano cose complicatissime da suonare. (ride, ndr

 

Sei stato, e sei, anche un cantautore. Nel senso che hai composto e suonato pezzi scritti da te. Credi ti si addica la definizione di cantautore, così come lo intendiamo in Italia, o preferisci quella di songwriter del mondo anglosassone? Chi sono i tuoi riferimenti?

Non credo mi si addica abbastanza questa definizione. Almeno per quella che è la connotazione che gli è stata data in Italia. Raramente qui un cantautore è molto rock. Ad eccezione forse di Bennato, che ha delle solide basi blues. Io invece penso di esserlo. Prediligo arrangiamenti scarni, diretti e a volte elettrici, concepiti spesso per un quartetto, mai per un’orchestra con fiati e violini. In genere perdo interesse quando la cosa si complica. Mi piacciono le cose piccole e trovo che sia importante avere un contatto diretto con chi sta sul palco, capire e vedere gli essere umani che si celano dietro i musicisti. E questa è una cosa che mi tiene molto legato al blues e al rock.

Ad esempio, non ho più voglia di andare in uno stadio a vedere un cannone che spara. Ho amato gli AC/DC perché erano un gruppo semplice. Un loro concerto su un palco 8x8 ai tempi di Bon Scott, per me è molto di più di quello che succede con i cannoni, le bambole gonfiabili e la gru che porta Angus in giro.

Non ho dei riferimenti veri e propri. È tutto molto più automatico. Esce fuori da sé ma sono gli altri a farmelo notare. Faccio una ballad che mi sembra più vicina a certa musica italiana e mi dicono che è blues. E io, a un certo punto, ci credo. Mi sembra di aver capito che le mie estrazioni musicali vanno da sole in una certa direzione, al di là della mia volontà.

 

Mi pare di capire che, in un modo o nell’altro, sei finalmente riuscito a fare della musica il tuo lavoro. Immagino fosse un’ambizione che hai covato fin dai tuoi esordi. Ma ci hai messo parecchio tempo per farla diventare realtà. Potresti raccontarci il tuo “calvario” personale, pensi di poterti ritenere soddisfatto?

Ho smesso di fare altri lavori paralleli, e demenziali, più di 20 anni fa. Ho capito come trasformare questa passione e, ora, posso dire di saper fare abbastanza bene questo mestiere. Non perché sia più o meno bravo. Ho semplicemente imparato a muovermi, ho trovato dei contesti dove suonare e dove riuscire a farlo con sufficiente continuità, che è quello che poi serve per farne un lavoro.

Per me non c’erano altre possibilità. Non sono mai riuscito a pensarlo come un hobby del weekend, che per altri va benissimo. Doveva essere quotidiano, e per esserlo doveva darmi da mangiare perché non trovavo il tempo per fare un altro lavoro.

Preferivo scendere a compromessi e viverli, perché la realtà è quella. Quello che a me piace di questo lavoro è sicuramente suonare, ma anche chiacchierare con te, conoscere una persona nuova, cambiare location ogni giorno, diventare amico dei titolari dei locali e, negli anni, conoscerne la famiglia e i figli.

 

Il tuo curriculum annovera appunto una lunga serie di collaborazione autorevoli. L'ultima in ordine di tempo ti ha visto registrare un album e un dvd con Francesco Fry Moneti, violinista e polistrumentista di Modena City Ramblers e Casa Del Vento, con il quale, a giudicare dalle vostre esibizioni dal vivo, si è creato un gran bel feeling musicale. In cosa vi siete ritrovati?

Suonare insieme si è rivelato, da subito, facilissimo e divertente. Lo si pensa acustico ma Francesco è un rocker, se gli dai una chitarra elettrica e schiacci un distorsore, sònada (ride, ndr). Risveglia in lui un certo hard rock degli anni 80/90.

Con il mandolino a quattro corde suona Led Zeppelin, Jethro Tull, Rolling Stones e Hendrix. La sintonia si è creata perché siamo riusciti a ricavarci una dimensione rock che ci ha unito, anche se in una veste più acustica. Ci siamo ritrovati anche nella necessità di suonare tanto; lui fa parecchie date con i Modena, ma non appena ha una settimana libera pensa a suonare , non a riposarsi (ride, ndr).

 

Hai delle esibizioni che conservi indelebilmente nella memoria e che ti hanno lasciato qualcosa?

Sono un disastro con la memoria. Quando ritorno in tanti paesi della Sardegna, ho spesso l’impressione di non averci mai suonato. Solo quando vedo i posti e la gente mi tornano alla mente i ricordi.

Mi ricordo senza dubbio i concerti più grandi, perché sono meno numerosi. Come uno, di tanti anni fa, con la band al Teatro Alfieri, a Cagliari, che ora non esiste più. Un concerto molto preparato, con la scaletta e la regia luci. Ricordo le cose delle quali è rimasta una testimonianza, come il concerto con Francesco (Fry Monetti, ndr) del quale è uscito cd e dvd, che posso rivedere ogni volta che voglio.

In questo posto (al Ninny Bar di Tonara, ndr) ho fatto un paio di serate negli ultimi cinque anni, che ricordo abbastanza bene per il calore della gente e per l’atmosfera da concerto rock che si è creata ogni volta, molto più di quanto mi succeda normalmente. Un approccio molto bello anche perché i miei gusti si sposano bene con quelli di questo pubblico, dove persino le ultime generazioni in pista apprezzano gruppi come i Clash, che, da altre parti, i ragazzi di quell’età neanche conoscono.

 

Questa domanda può rivelare tanto della sensibilità artistica di un musicista. Ma anche no. Sarai tu a dircelo. Qual è la canzone di un altro che avresti voluto scrivere?

Un po’ troppe. Sicuramente Born To Run di Springsteen (che in realtà ho riscritto in italiano), o Because the night, sempre di Springsteen ma rivista da Patty Smith. Ma anche Sympathy for the devil e My generation.

 

Simone La Croce