Grazia Deledda è la madre di tutti gli scrittori sardi. E a qualsiasi scribacchino dell’isola che si affanni per contestare questa affermazione io nego insindacabilmente ogni diritto di replica.Maria Grazia Cosima Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871, da Francesca Cambosu e Giovanni Antonio Deledda, imprenditore benestante, proprietario terriero, poeta e uomo politico locale (eletto sindaco di Nuoro nel 1892).

Terminata la scuola primaria prosegue gli studi con un professore privato che le insegna il latino, l’italiano e il francese. Per conto proprio ne approfondisce le letterature, cosa che, anche in futuro, non smetterà mai di fare. Esordisce come scrittrice pubblicando alcuni racconti su una rivista di moda, ma la sua vera opera prima, Nell’azzurro, è del 1890. Nel 1895 pubblica Anime Oneste e a distanza di cinque anni Il vecchio della montagna, due opere importanti della sua produzione.

Nel 1900 si sposa con Palmiro Madesani, un funzionario del Ministero della Difesa con il quale, poco tempo dopo, si trasferisce a Roma. Scrive su numerose riviste, come Nuova Antologia, che tra i tanti collaboratori ha in seno due futuri premi Nobel: Luigi Pirandello e, per l’appunto, la stessa Deledda. L’opera della scrittrice sarda comincia così a incuriosire la critica e a essere apprezzata da alcuni importanti colleghi. C’è qualcosa di nuovo nell’aria, in questa scrittura che non è italiano accademico e non è pura lingua sarda, che è sintassi sarda sporca di morfologia italiana e lessico italiano innestato nella semantica sarda. Una scelta di criterio e consapevolezza. Perché Grazia Deledda è cosciente del fatto che la lingua nazionale non la contiene interamente, e capisce bene che le sue storie d’amore e di morte, di vita e dolore, perderebbero tutta la loro forza espressiva se raccontate in italiano “standard”. Ecco come nasce questa misura in cui la lingua nazionale rincorre il dialetto. Non potrebbe essere altrimenti, perché la Deledda non sta facendo letteratura italiana, ma sta costruendo una letteratura sarda per tutta la nazione; e sa bene che la Sardegna è un mondo, e che ogni narrazione è un mondo, dunque la terra delle sue storie deve essere un mondo al quadrato, e per raccontare un mondo al quadrato è necessaria una lingua al quadrato.

Con questa consapevolezza scrive Elias Portolu, pubblicato nel 1903, testo che spiana la strada a una serie di successi: Cenere nel 1904, L’edera nel 1906, poi Sino al confine, Colombi e sparvieri e Canne al vento, pubblicati tutti tra il 1910 e il 1913. Nel 1918 esce L’incendio nell’oliveto e quattro anni dopo Il Dio dei venti. Altri quattro anni più tardi, Grazia Deledda vince il Premio Nobel per la letteratura.

Nel giorno di ferragosto del 1936 la scrittrice muore, all’età di sessantacinque anni.

Grazia Deledda può essere ricordata ovunque e in qualsiasi momento: sarebbe sufficiente leggerla. Ma i luoghi fisici della sua memoria sono principalmente due: la casa in cui ha vissuto dalla nascita al giorno del matrimonio e la Chiesetta della Solitudine.

La casa natale è situata in uno dei quartieri più antichi del centro storico di Nuoro, il rione San Pietro, un tempo dei pastori, nella via che oggi è dedicata alla scrittrice.

E’ un piccolo palazzo del secondo Ottocento, sviluppato su tre piani, con ampie camere e corti interne. Abitazione tipica delle famiglie benestanti nuoresi, nel 1913 (quando la Deledda è ormai via da dodici anni) viene venduta. Dopo la morte della scrittrice l’edificio viene dichiarato monumento nazionale e comprato, nel 1968, dal comune di Nuoro. Passeranno altri due lustri prima che l’Istituto superiore regionale etnografico lo rilevi, al prezzo simbolico di mille lire, e cominci ad allestirvi il museo. Importantissimo sarà il contributo della famiglia Madesani-Deledda che donerà manoscritti, fotografie, documenti e oggetti della scrittrice.

Il Museo Deleddiano viene così inaugurato nel 1983. Chiuso nel 1997 per essere restaurato, alla sua riapertura si presenta arricchito di nuovi materiali fondamentali per ricreare gli ambienti presenti nell’opera di Grazia Deledda.

Oggi visitare quel museo significa vivere la scenografia di un romanzo. L’ultimo allestimento risale al 2006. I tre piani dell’abitazione sono suddivisi in dieci sale nelle quali è tracciata l’intera esistenza della scrittrice. Si trovano la cucina e la dispensa, ricostruite come furono descritte in Cosima.

In quella che era un tempo la stanza dei genitori della Deledda sono esposti la medaglia e il diploma del Nobel, più vari documenti che ricordano il viaggio a Stoccolma e la premiazione. Un’altra sala è dedicata all’Atene Sarda, com’è stata definita, per il suo fermento culturale, la città di Nuoro. Qui si trovano le vite e le opere di alcuni importanti personaggi locali.

La camera da letto della scrittrice, arredata con lo stesso criterio della cucina e della dispensa, ha una piccola finestrella dalla quale il visitatore potrà volgere lo sguardo al monte Ortobene. Proprio all’inizio della strada che conduce a questo monte, si trova un secondo luogo alla memoria di Grazie Deledda: la Chiesetta della Solitudine.

Costruita tra il 1950 e il 1957 su progetto dell’artista locale Giovanni Ciusa Romagna, sorge sui resti di una piccola chiesa seicentesca da sempre cara all’autrice nuorese che a questa dedicò un romanzo. E’ una chiesetta di campagna, con la facciata di granito e un modesto campanile. Al suo interno, dal 1959, si trova la tomba di Grazia Deledda.

Negli anni Quaranta e Cinquanta, forse per la recente assegnazione del Nobel, i resti di storia e letteratura italiana le dedicavano numerose pagine. Ma, a partire dalla metà degli anni Sessanta, l’autrice è quasi scomparsa dalle antologie. Forse, dopo tutto questo tempo non siamo ancora stati capaci di metabolizzarla (neanche in terra sarda). A farmelo supporre, è l’atteggiamento di molti critici che, nell’incertezza, le infilano l’abito stretto di verista.

Invece che diavolo di vestito dovrebbero metterle?

Se dovessi seguire le povere classificazioni che ho imparato da studente, neanche io ne avrei la più pallida idea. Condivido in pieno, però, l’opinione che esprime Marcello Fois nel suo libro In Sardegna non c’è il mare (Editori Laterza, 2008): “La Deledda ha prodotto il modello di romanzo in Sardegna”.

Voglio considerare questo pensiero dell’autorevole scrittore (non a caso nuorese anche lui) come il sigillo su quanto ho detto all’inizio: Grazia Deledda è la madre di tutti gli scrittori sardi. Quindi, forse, sarebbe più opportuno se iniziassimo a infilarle un abito tradizionale di questa terra.

Da “101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita” di Gianmichele Lisai