La Sardegna è la terra natia di numerosi intellettuali e artisti apprezzati e lodati in tutto il mondo. Abbiamo avuto l’enorme piacere, dopo un primo incontro nel 2015, di rinnovare il confronto con il regista sardo probabilmente più celebre al di fuori dell’isola. Si tratta di Salvatore Mereu, classe 1965, David di Donatello per il miglior regista esordiente (2004) e Ciak d’oro per la migliore opera prima (2004).
L'occasione di un nuovo incontro è l'uscita del suo ultimo film Assandira, presentato in anteprima il 6 settembre 2020 fuori concorso alla 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Abbiamo visto il film al cinema qualche settimana fa e siamo rimasti piacevolmente soddisfatti: la storia di una famiglia e di un agriturismo, Assandira, pieno di sogni e misteri non può non intrigare, specie di questi tempi. Temi delicati, estremamente attuali vengono trattati dal regista con delicatezza ma anche con forte senso critico, nello spirito di una Sardegna che non si dà per vinta. Una terra che vuole raccontarsi e farlo al meglio delle sue possibilità, orgogliosa di un autore come Mereu e di una grande personalità quale Gavino Ledda, che presenta una commovente e intensa prova attoriale di qualità.

Abbiamo avuto modo di incontrarla nel 2015. Come è cambiato il regista Salvatore Mereu in questi anni?

Mi ritengo cresciuto soprattutto da un punto di vista professionale. Film dopo film si tenta, si prova ad andare avanti rispetto al passato, si sperimenta e ci si mette alla prova nelle operazioni più disparate. Operazioni che magari possono anche non garantire un risultato certo, ma ti danno la possibilità di raccontare una storia. Personalmente il mio Assandira significa proprio aver fatto un passo avanti.

Parliamo proprio del suo Assandira. Cosa rappresenta questo film per lei? Cosa rappresenta nella sua poetica di autore?

È possibile affermare che Assandira, per certi versi, racchiuda tutte le mie pellicole precedenti. Chi conosce i miei lavori passati, coglie alcuni spunti di altri miei film precedenti: la presenza delle bambine, ad esempio, è un chiaro riferimento a Bellas Mariposas (2012, cfr.). Assandira arriva in un momento in cui volevo, ancora una volta, esplorare le possibilità di racconto che dà la mia terra, ma anche quello che è successo in Sardegna, raccontato con valenza quasi profetica dal libro da cui è tratto il film. Oggigiorno la Sardegna è presente a livello culturale, molto di più rispetto al passato, ma rimane una terra poco raccontata, soprattutto dal cinema. Per questo ho provato a raccontare i meno fortunati, coloro che hanno meno voce, gli ignorati: questo anche in Assandira.

Frame da Assandira

 

In Assandira c’è un chiaro riferimento al voyeurismo social e al vivere una vacanza a volte artificiosa. In che misura questo tema riguarda la Sardegna che viviamo?

Oggi non si vive l’istante: lo si rappresenta e si sostituisce al vivere. I personaggi non fanno determinate cose, ma le rappresentano, le mettono costantemente in mostra, così come noi facciamo quotidianamente per far sapere agli altri cosa succede. L’esperienza della rappresentazione si è sostituita alla vita stessa, e la forbice si è allargata enormemente. Nel film tutto ciò è presente: credo però che sia limitativo declinarlo solo dal punto di vista puramente sardo, perché in realtà gli avvenimenti possono essere letti anche entro l’intero mondo odierno.

Cinema e promozione territoriale: secondo lei è un binomio valido per la nostra isola? In che termini?

Il cinema, avendo a che fare con immagini, è sempre stato un formidabile e potentissimo strumento per fare promozione. Tuttavia, bisogna stare attenti a come lo si utilizza. In questo film, dove si racconta di una famiglia e di un villaggio turistico, il fulcro è la famiglia stessa e non il paesaggio. Il film non è un insieme di cartoline per promuovere il luogo, ma è il legame critico che viene instaurato tra i personaggi a dare valore al paesaggio. Naturalmente poi si creano dei particolari legami tra luogo e finzione (basti pensare alla Sicilia del commissario Montalbano, o a Brescello e Don Camillo). Diciamo che, di fatto, la trama attraversa luoghi specifici, i quali diventano attrazioni quanto la scena stessa. E nei miei lavori è così.

Particolarmente interessante è stato poi il confronto col regista con un film assai delicato per il popolo sardo: si tratta del celebre, pluripremiato e assai controverso Padre Padrone (1977).

Ora le vorrei chiedere un parere e un confronto di natura squisitamente cinematografica. Lei conoscerà sicuramente il film Padre Padrone (1977), diretto dai fratelli Taviani e basato sull’omonimo romanzo di Gavino Ledda, il quale è anche l’attore protagonista di Assandira. Ora, al tempo di Padre Padrone, riguardo alla scelta di far parlare gli attori col solo accento sardo, i registi affermarono: «Abbiamo girato il film in italiano così come il libro, “perché altrimenti nessuno lo avrebbe letto” - come disse Ledda - “i sardi per primi, dal momento che il nostro dialetto subisce varianti di provincia in provincia.”». Vorrei sapere, con riferimento al suo Assandira (in cui si parla spesso in sardo), cosa ne pensa di questo particolare commento, se lo condivide o meno e in che misure.

Innanzitutto, per me Padre Padrone, a differenza di quanto pensino molti sardi, è una delle migliori e più belle rappresentazioni mai fatte della Sardegna: è sempre stato un film di grande ispirazione.

Tuttavia, ad esempio, Gavino Ledda l’ho scelto per la sua fisicità e per la sua aderenza al personaggio a cui avevo in mente: non ho mai preso in considerazione di sceglierlo per il legame con Padre Padrone.

Per quanto riguarda invece la questione della lingua, bisogna dire che i Taviani consideravano l’italiano un modo più efficace di far trasparire il loro messaggio. Di fatto, lo è stato, poiché la scelta della lingua sarda aliena oggettivamente una gran parte di pubblico: se la si sceglie, ci si ritrova perlopiù nella nicchia. La mia scelta della lingua sarda è assolutamente consapevole. Ad esempio, scelgo prevalentemente attori non professionisti: è possibile quindi che il pubblico sia maggiormente composto da appassionati di cinema o da sardi. È sicuramente una scelta difficile. Tuttavia, non mi pento della mia decisione: penso infatti che rappresenti al meglio la mia terra, e ciò non toglie assolutamente valore al film, anzi. L’utilizzare la lingua sarda o meno non garantisce la qualità del film, ma è esso stesso a garantirla: da natio dell’isola semplicemente sento di non poterne farne a meno.

Luca Mannea