- Buongiorno signor Giovanni

- Buongiorno dottor Fabio

- Come sta?

- Io bene, grazie. Lei?

- Non c’è male, grazie

- Giuseppa?

- Eccola qui. Sempre serena, lei.

 

Seduta su una sedia a rotelle, in una stanza grande e confortevole, illuminata da una bellissima giornata di primavera, una povera donna col sorriso sulle labbra, ma totalmente assente. L’Alzheimer questo fa. Mi siedo su una sedia e scambio due parole con Giovanni. Giovanni, classe 1936, non dimostra i suoi 80 anni. Uomo di grande integrità morale e lucidità mentale, grande lavoratore, sardo verace, di Escalaplano, manifesta con orgoglio le sue origini. Nel tempo che ha a disposizione, dopo aver accudito amorevolmente sua moglie, si dedica alla campagna, nella quale ha sempre creduto.

- Signor Giovanni, dove ha vissuto?

- Caro dottore, la mia vita mi ha riservato tante sorprese. Quando la nostra terra non mi ha dato la possibilità di vivere dignitosamente, sono partito per il Belgio alla ricerca di lavoro.

- Cosa faceva in Belgio?

- Il minatore, in una miniera di carbone. Ci facevano fare una visita attitudinale a Verona e poi, se ti davano l’idoneità, potevi entrare in miniera a lavorare.

- Com’era il suo lavoro? Glielo chiedo perché io sono nato in un paese di miniera, nel Sulcis Iglesiente, e molti miei parenti, come ad esempio mio nonno, erano minatori.

- Ho lavorato in una miniera di carbone, tristemente famosa. La miniera di Marcinelle. Lavoravamo coricati per terra, strisciando sul fondo, anche a millequattrocento metri di profondità. Ero presente quando avvenne la tragedia. Morirono 262 minatori di cui 136 Italiani. Ci fu un incidente tecnico che fece esplodere il grisù, drammaticamente presente in quel tipo di miniera. Tanti morti e pochissimi superstiti.

- Come funzionava sotto? C’erano misure di sicurezza?

- Le misure di sicurezza - risponde con un sorriso – erano i topi che vivevano in miniera. Quando loro scappavano, era segnale rosso. Raccontavano di un padre e un figlio, ritrovati sotto terra, abbracciati nella morte. 

Si rattrista, e così succede anche a me. Penso ai miei avi e a tutti coloro che partirono dalla Sardegna, con la valigia di cartone legata a spago, alla ricerca di un lavoro onesto.

L’8 agosto del 1956, alle ore 8,10, a Marcinelle, zona mineraria del Belgio, si consumò una delle più grandi tragedie che hanno mai colpito lavoratori italiani nel mondo.

Per una fortunata circostanza non morì neanche un sardo perché il loro turno era quello pomeridiano.

140 mila emigranti italiani, attraverso un accordo Italia Belgio, vennero attratti da manifesti che comparivano in tutte le città italiane.

Dicevano “Solo 18 ore per arrivare in Belgio”, erano indicati i salari, certamente superiori a quelli italiani. Promettevano “Assenze giustificate per motivi di famiglia, carbone gratuito, biglietti ferroviari gratuiti, premio di natalità, ferie, vito e alloggio presso la cantina della miniera, contratto annuale” e poi, per accelerare la decisione, “compiute le semplici formalità, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”. Ma non era vero niente. Nei manifesti non si parlava di silicosi, non si parlava di grisù, gas che inesorabilmente si sprigionava dalle pareti e facilmente si incendiava. Non si parlava dei topolini che i minatori tenevano in tasca e dei tanti canarini in gabbia che con la loro morte avrebbero segnalato la presenza del gas micidiale, alcune volte quando ormai era già troppo tardi.

Questo erano i nostri conterranei, e questa era la loro vita. Quando qualcuno, tendenzialmente ignorante, dice che anche noi sardi siamo stati emigranti e abbiamo avuto tutti i confort, accettati e integrati in tutti gli ambienti esteri, dovrebbe farsi un esame di coscienza ed ascoltare, magari per pochi minuti, ciò che uno dei tanti Giovanni Agus o Mario Cabboi, possono ancora raccontare. Chiaramente avendone il coraggio e senza che le lacrime allaghino i suoi occhi.

 

Fabio Barbarossa

3494086873

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