Mentre avantieri, a Sassari, alcuni sardi manifestavano la propria imbecillità, altri sardi, a Gonnosfanadiga, manifestavano per una causa per loro vitale. Ovvero, contro la costruzione in quei territori di un gigantesco impianto solare termodinamico che si estenderà per un'area ampia ben 232 ettari, pianeggiante e ricadente in zona agricola, nella quale operano aziende che attualmente certificano produzioni di qualità.

Secondo la relazione presentata - da parte dei proponenti - al Ministero dell'Ambiente, l'impianto opererà per un periodo di circa 30 anni. A sostegno della sua costruzione vengono utilizzati numerosi argomenti: riduzione dei combustibili fossili; impulso all'occupazione locale; introiti economici per le casse comunali; la possibilità, al termine della vita dell'impianto, di ripristinare la situazione precedente. Nella relazione si legge, addirittura, che “trattandosi di un tipo di impianto innovativo dal punto di vista tecnologico, non si deve escludere la possibilità di visite guidate e convegni relativi a tale settore, che andrebbero ad incrementare lo sviluppo “turistico” della zona” (pag. 12). In altre parole, oltre ai nostri nuraghi, alle nostre spiagge, alle tracce della nostra millenaria cultura, secondo i proponenti dovremmo esibire ai visitatori una distesa di pannelli solari per la quale però, come afferma la stessa relazione in un altro punto, sorge “l'esigenza di mitigare l'impatto visivo” attraverso “rivestimenti e colorazioni degli edifici” nonché la “messa a dimora” di piante che oscurino alla vista la centrale. I proponenti, dunque, immaginano visite turistiche in un luogo il cui impatto visivo va mitigato e la cui vista va coperta.

L'idea sarebbe buona se si volesse offrire un pacchetto che comprenda anche altri luoghi simbolo dello scempio subito nel tempo dal territorio sardo: basi militari, Saras, Furtei, aree industriali abbandonate; ma la verità è che l'argomentazione di stampo turistico, come le altre, è immaginata per popolazioni con l'anello al naso nonostante i tempi del “vogliamo milioni, non miliardi”, siano finiti.

Se si vogliono veramente ridurre i combustibili fossili – e su questo siamo tutti d'accordo – lo si faccia eseguendo le installazioni nei luoghi già compromessi e inutilizzabili per altri fini - quali, ad esempio, le zone industriali dismesse - e non utilizzando aree perfette per l'economia agro-pastorale, specie quelle non ancora interessate dallo sfruttamento selvaggio del territorio che la Sardegna ha subito negli ultimi secoli.

La relazione afferma che la scelta di quell'area è giustificata anche dal fatto che essa potrebbe essere interessata, nel tempo, da processi di desertificazione. Chiunque abbia visitato l'area può testimoniare che si tratta di affermazioni pretestuose.
Nella relazione si legge, poi, che tale impianto darebbe un impulso all'occupazione locale. Si parla – senza offrire dimostrazioni di quanto viene detto - di una cinquantina di posti di lavoro per la manutenzione dell'impianto; con la precisazione, però, che solo il 65% di questi impieghi riguarderebbe le popolazioni dei luoghi della centrale; nei quali, peraltro – come rilevato dalle deduzioni di deduzioni dei controinteressati – pare manchino le figure specializzate richieste per questo tipo di attività. Potrebbe accadere, pertanto, che i comuni interessati debbano cedere questi preziosi terreni – e sottrarli alla propria economia – senza ottenere nemmeno benefici occupazionali diretti; l'unico vantaggio immediato sarebbero gli introiti per le casse comunali. Peccato che quelle popolazioni non siano interessate a questo scambio, e l'abbiano dimostrato manifestando in tutte le sedi la propria, netta, contrarietà al progetto. Tanto che, a quanto pare, per poter procedere all'insediamento nelle aree saranno necessari procedimenti forzosi motivati dalla “pubblica utilità”.

Con un disperato tentativo di persuasione, i sostenitori dell'impianto affermano che la distanza tra i pannelli consentirebbe, comunque, di praticare coltivazioni all'interno dell'impianto; peccato che vengano smentiti dalla stessa Relazione la quale, a pag. 118, afferma che “a realizzazione dell’impianto si traduce nel ritiro temporaneo della superficie di terreno dal ciclo produttivo”.

La verità è che l'unica reale utilità è quella che ricadrà nelle tasche degli investitori, attraverso una società che di Gonnos utilizza il nome ma che ha sede legale a Londra: non solo attraverso i profitti industriali derivanti dalla vendita dell'energia prodotta, ma soprattutto attraverso la cessione di certificati verdi, un business molto redditizio per chi lo pratica e assai meno per le popolazioni che ne subiscono le conseguenze. Specie se si considera che l'impianto di Gonnosfanadiga potrebbe rientrare in un disegno ben più ampio, che comprenderebbe la costruzione di altre tre mega centrali (Villasor, Cossoine e Giave), per un totale di circa 900 ettari.

Alla manifestazione di ieri era assente chi è stato designato alla guida della Sardegna, nonostante le dichiarazioni di facciata siano di segno opposto. Come mai queste popolazioni sono state lasciate sole da chi dovrebbe rappresentarle? Qual è il modello di sviluppo che questi amministratori hanno in mente per la nostra terra? Possiamo davvero accontentarci di svendere le nostre aree produttive in cambio di irrisorie contropartite monetarie le quali, a parte minuscoli benefici immediati e temporanei, lasceranno in quei luoghi la desertificazione ambientale, economica e sociale? Del resto, vanno in questa direzione anche le recenti decisioni in materia di usi civici, gli aumenti di cubatura nelle zone costiere ma anche, più in generale, evidenti politiche di totale liquidazione delle zone interne. E andava in questa direzione l'appoggio convinto ad una riforma costituzionale che avrebbe reso di ordinaria amministrazione la prevaricazione sulle comunità più deboli.

Per tutte queste ragioni, questa battaglia non interessa soltanto i cittadini di Gonnos e degli altri comuni coinvolti: riguarda tutti i sardi, i quali hanno il dovere morale di non assistere, indifferenti, al tradimento perpetrato da chi dovrebbe rappresentarli; alla mortificazione della propria isola; a imposizioni che, per il profitto di pochi e come è già accaduto troppe volte in passato, compromettono quel modello agro-pastorale che è la naturale vocazione economica delle zone interne sarde.