Qualche anno fa ho scoperto che assistere a un concerto di Vinicio Capossela può essere un’esperienza piuttosto evocativa. A un certo punto della serata il cantautore si è messo in faccia una maschera che aveva, fissato al suo interno, un microfono. Veniva fuori un suono ovattato, e le parole risultavano quasi incomprensibili. Capossela, curvo su se stesso, sbatteva sul pavimento del palco un mazzo di campanacci di ferro. Fu forse proprio questo gesto che, ricordandomi il rito del Mamuthone, mi fece dire alla persona che mi accompagnava: “Secondo me è una maschera sarda”. Eppure, in tutta evidenza, quella maschera bovina non aveva nulla a che fare con la più famosa made in Mamoiada.

Ormai insinuato il tarlo nella mia mente, tornato a casa feci una ricerca e trovai, riferite a quella maschera, le seguenti parole del cantautore: “La prima volta che l’ho vestita in faccia, oscure forze della natura hanno cambiato, da quel momento, il mio modo di sentirmela, la faccia, e ho capito, da dietro quelle fessure di legno, che il mondo è grottesco visto dagli occhi del Minotauro. E che solo la pietra nuragica è in armonia con la natura delle cose. […] Quelle del Carnevale di Ottana sono maschere straordinarie, perché invece di travestirti da qualcos’altro mettono a nudo la tua vera natura. Sono maschere che ti smascherano, liberando le tue pulsioni più recondite”.

A dire la verità avevo già sentito parlare delle maschere di Ottana ma con ignoranza mi ero limitato a considerarle un sottoprodotto dei più celebri Mamuthones. Nulla di tutto questo. Sempre di maschere barbaricine si parla, ma anche queste hanno una loro storia e una tradizione importante. Ovviamente la loro vetrina è il Carnevale durante il quale, ognuna con il proprio ruolo, rappresentano scene di vita rurale.

Le maschere principali, tutte di legno, sono tre. Quella dei Merdules, dai lineamenti deformati che rimandano alla fatica del lavoro nei campi, rappresenta i volti degli uomini, contadini e pastori che, con indosso mastruche di pecora bianca o nera e vecchi abiti tradizionali, procedono ingobbiti, tenendo in una mano il bastone utilizzato per gestire le bestie, e nell’altra sas soccas: le redini con cui vengono guidati i Boes. Questi ultimi portano la maschera che avevo visto sulla faccia di Vinicio Capossela nel citato concerto: quella del bue, con intagliate nel legno corna più o meno lunghe. Indossano a loro volta mastruche di pecora o logori vestiti della tradizione, e portano a tracolla una spessa cintura di cuoio dalla quale pendono grossi campanacci. La terza maschera è quella de sa Filonzana, indossata sempre da un uomo ma raffigurante il volto grottesco di una temibile vecchia, vestita a lutto, che tiene in mano la lana e gli strumenti per filare (il filo dell’esistenza).

Di introduzione più recente la forbice con cui taglia il filo della fortuna nel caso incontri una persona a lei sgradita. Sa Filonzana beve vino e legge il futuro: lo predice buono a chi le fa assaggiare vino di qualità e cattivo a chi le offre vino scadente.

Altre maschere meno diffuse, ma che prendono parte al Carnevale di Ottana, sono quelle del maiale e dell’asino, conciati con pelli e provvisti di un solo campanaccio; ancora più rare quelle del cervo e del capriolo.

Sas Mascaras Serias (le maschere serie), infine, rappresentano la comunità più varia. Donne, uomini e vecchi che, in abiti stravaganti, sfilano per le vie del paese in un’immensa danza giocosa.

Il Carnevale di Ottana, come già accennato, ha le proprie origini nella cultura agro-pastorale. Ne rappresenta scene e momenti topici che si mescolano, secondo gli studiosi, con riti arcaici legati al Dio Dioniso e al passaggio della stagione invernale a quella primaverile, quando la terra si prepara a rifiorire. Di cerimonie simili si ha testimonianza presso molte antiche civiltà del Mediterraneo, e non solo. Ma il culto più evidente, in questo Carnevale ottanese, sembrerebbe quello del bue. Emblematica la maschera del Boe, che riproduce inequivocabilmente le sembianze dell’animale. Praticato in epoca neolitica dalle civiltà rurali del Mediterraneo, il rito tendeva a esaltare il toro in quanto simbolo di fertilità e di forza.

Come succede a Mamoiada, anche a Ottana le maschere si mostrano per la prima volta il sedici gennaio. Fino a qualche tempo fa altre due uscite precedevano quella carnevalesca: una il venti gennaio, giorno dedicato a San Sebastiano, e una il due febbraio, durante la festa della purificazione della Vergine.

Una delle scene più suggestive nel rito delle maschere ottanesi è senza dubbio la lotta tra Boes e Merdules, quando i primi, abbandonano il loro consueto passo cadenzato, si gettano per terra e si dimenano in segno di ribellione verso i secondi. Quindi i Merdules, questi uomini animalizzati, con il laccio in mano o con il bastone, cercano di riportare i Boes, le bestie umanizzate, sotto il proprio controllo.

Starà a voi decidere per chi fare il tifo quando vedrete con i vostri occhi i riti legati alle maschere di Ottana. Questa tradizione che, grazie all’isolamento in cui il paese è vissuto per lunghi anni, si è conservata pressoché invariata, come non è accaduto invece per altri carnevali barbaricini.

Da “101 cose da fare in Sardegna almeno una volta nella vita” di Gianmichele Lisai