Dalla metà di ottobre fino a tutto novembre i tratturi selciati del vecchio borgo venivano attraversati da enormi branchi di pecore. Gli animali erano sospinti da giovani pastori, intabarrati con lunghi mantelli neri di orbace. Io e mio fratello, sette anni d’età e quattro rispettivamente, restavamo incantati a vedere quel passaggio interminabile di pecore belanti e di agnellini da poco nati, che tentavano di attaccarsi ai capezzoli delle loro madri. Quel mare di lana bianca belante, che si muoveva e ondeggiava, accompagnava inesorabilmente anche i miei sogni. Sogni rilassanti dove mi  ritrovavo, adulto, mentre accudivo di persona ad un branco di pecore, tutte mie, in tancati illuminati dai colori della primavera e dal sorriso amicante di ragazze vogliose di avventure.

Uno di quei lontani miei sogni si materializza e mi riporta ad un presente che mi affascina. Ed ecco che sento in lontananza i modulati canti dell’aratore e del poetico pastore; canti che allietano la campagna. Mi ci vedo, al calar del sole, mentre i contadini rientrano dai campi a bordo dei carri cigolanti, trainati da placidi buoi dalle narici fumanti. Le vie del borgo sono animate dai giochi dei bambini e dalle voci delle madri, che li chiamano per nome. Le campane del vecchio campanile rintoccano l’orazione e invitano ad un momento di devozione. Tutto è magia. Quelle ragazze mi riportano ad un presente meraviglioso, ad un sogno che mi vede protagonista, anche se da spettatore. Esse mi invitano a lasciare il prato lucente e ad addentrarmi nei boschi della vicina montagna. Un bosco incantato. Una musica soffusa e canti delicati accarezzano le mie orecchie. Ma è un sogno o la realtà di una vita da sogno?  Improvvisamente si materializza il dio Pan, che mi da il benvenuto cantando, mentre una miriade di ninfe fanno festa con le ragazze che mi accompagnano e mi stringono con le loro candide braccia. Cantando e danzando mi portano in un luminosa ed ampia reggia. Devo chiudere gli occhi per l’abbagliante splendore delle sue pareti. Il mio essere si annienta e il cuore galoppa impazzito; le mie membra son tutto un fremito e la mente si ottenebra. Mi trovo di fronte  al mistero. Una voce soavissima, prima lontana lontana, poi sempre più vicina, mi richiama dal trance. <<Sono Teti, la Dea del Mare. Ebbi nostalgia della pace dei boschi ed è per questo che mi trovo qui. Nel tempo dei tempi venni a far visita ad Eolo sulle ventose creste di Punta Sa Marghine. Egli fu molto gentile verso di me e mi trattenne sua ospite gradita per molte settimane. E venne il giorno di partire; i miei doveri mi richiamavano al mare. Mi assalì la tristezza ed il caro Eolo se ne accorse. Mi disse: “O cara, o inclita Dea, Teti gentile, cosa ti rende l’animo sì triste? Dimmi, dimmi cos’hai, onde ne possa, nel mio po’, farne ammenda!”. Gli risposi: “Sono stanca del mare, o Eolo, e ora mi rende trista lasciare il tuo regno, a me tanto caro. Quanto sarebbe piacevole vivere qui per sempre! Quanto sono sfortunata!”. Così dicendo piansi, piansi tanto. Eolo allora mi prese per mano e mi condusse sulla cima di Punta Sa Marghine. Alzò il suo assieme al mio braccio e disse: “Ecco, io ti regalo l’intera vallata che sta sotto i nostri occhi. A me rimanga solo quest’impervia vetta. Che Giove ne sia testimone!”. Eccitata corsi subito al mare e sbrigai rapidamente i soliti noiosi doveri per poi ritornare in quello che era diventato il mio nuovo regno. Da Dedalo mi feci costruire questa splendida dimora, l’orgoglio delle mie regge. Iniziai a vivere un po’ qui e un po’ al mare, a secondo della stagione. Purtroppo durante la festa nuziale della mia ninfa Montanina, Giove ed Eolo, in preda ai fumi dell’alcool, vennero alle mani. Eolo sibilò, Giove tuonò; Eolo provocò una tempesta di vento talmente forte che devastò le mie foreste e scosse dalle fondamenta la mia reggia; il padre Giove allora, sempre più infuriato, si mise a scagliare i suoi terribili fulmini e ordinò una pioggia torrenziale. Le mie povere ninfe, terrorizzate e con alte grida, si strinsero a me, cercando protezione. Gli invitati se la diedero a precipitosa fuga. La reggia stava già sprofondando quando ordinai alle mie ninfe di scappare al più presto. Poi, non so come, riuscii a spingere fuori i due litiganti appena in tempo e la reggia sprofondò. Eccola di nuovo intatta a mille metri sotto terra. Sopra vi è il paese che porta il mio nome. Gentile e laborioso paese, a cui concedo la mia protezione, rendendo fertili le campagne e dando intelligenza e bellezza agli abitanti”. La voce della Dea la sento sempre più lontane e la sua figura lentamente si dissolve. Le ragazze mi riaccompagnano alla tanca in fiore e tra risatine, carezze e saluti pure esse si dissolvono. 

 

Attilio Loche