Museddu è il nome della spiaggia della marina di Cardedu, nel tratto di costa compreso tra la Marina di Gairo e la Torre di Barì. Qui, da quattro anni a questa parte, un gruppo di giovani organizza il Set To Sun, una rassegna musicale che sembra essersi definitivamente ricavata un posto di tutto rispetto nel panorama delle manifestazioni estive sarde. 

Quest’anno i ragazzi dell’Associazione Culturale Quiescenza hanno deciso di fare il salto di qualità, innanzitutto mettendo in piedi una efficiente macchina organizzativa, che gli ha consentito di ottenere il favore, e i finanziamenti, di partner importanti come la Regione Sardegna e il Comune di Cardedu, oltre a tanti sponsor privati. In secondo luogo sono riusciti a portare avanti una massiccia e mirata promozione, nei tempi giusti e attraverso tutti i canali a disposizione, individuando una line-up che affiancava grandi nomi della musica italiana ad affermati gruppi isolani. Una selezione trasversale che andava incontro a un potenziale vasto pubblico, forse anche troppo per riuscire a trattenerlo in entrambe le serate.

Ma se una serie di circostanze avverse non avessero cercato di mettere i bastoni tra le ruote agli ingranaggi organizzativi, questo motivo sarebbe senza dubbio passato in secondo piano. A complicare le cose sono state, piuttosto, la scelta della giornata del giovedì, obbligata dalla concomitanza con altri eventi dell’estate ogliastrina, e delle due serate agli inizi di settembre, quando ormai si è già dato fondo ai risparmi per le vacanze; in questo caso la scelta è stata dettata dal Bando Regionale, grazie al quale sono stati ottenuti i finanziamenti, e che premiava gli eventi che avessero prolungato la stagione estiva.

Infine, si è messo di traverso anche il clima, decisamente poco clemente, che ha impedito la conclusione della seconda serata, interrotta, per questioni di sicurezza, in pieno nubifragio.

Questo non ha tolto niente al coraggio e all’intraprendenza degli organizzatori, che hanno, nonostante tutto, il merito di aver agito da professionisti in un mondo di dilettanti, di aver osato tanto e, forse, di aver anche sbagliato qualcosa, ma con onore.

È stato allestito un palco, secondo solamente a quello presente all’Arena Grandi Eventi di Cagliari, con service e impianto luci degno dei nomi che lo hanno calcato. L’area scelta era perfetta per eventi di questo tipo e si trovava solamente a qualche metro dalla spiaggia. Era presente una postazione della prima stazione radiofonica regionale, pronta a fare due collegamenti all’ora, in diretta, dal palco. E un numero di bagni chimici che non ricordo di aver mai visto ad analoghe manifestazioni nell’isola. 

 Il live set della prima giornata di festival parte con un po’ di ritardo perché si attende l’arrivo del pubblico, che giunge alla spicciolata, e non come gli organizzatori avevano previsto e sperato.

 

 

Salgono sul palco i Dealma, consolidata rock band del nord Sardegna; gli strumentisti vengono da Olbia mentre il cantante, l’ultimo arrivato in formazione, arriva da Alghero. L’attacco è dei migliori: calcolato e studiato fino all’ultimo beat, puntando tutto sull’evidente propensione del gruppo verso ritmi funk e sui riff hard rock del chitarrista Andrea Pica.

L’impatto della band è estremamente energico e tribale, impreziosito da una sezione ritmica devastante e incredibilmente precisa, composta da percussioni, batteria e basso, suonati, con grande professionalità, rispettivamente da Carlo Mazzoccu, Claudio Pinna e Manuel Dettori. Tutto è curato nel minimo dettaglio. A completare il quadretto, l’ingresso del talentuoso cantante Giuseppe Mura, che, dosando a dovere tempi e modi, irrompe sul palco con la potenza della sua voce e l’ondeggiare della sua folta chioma. Evocando a più riprese Chris Cornell. Più per la chioma che per la voce.

Purtroppo però non siamo più nella prima metà degli anni novanta, quando uscirono buona parte dei dischi che hanno influenzato suoni e ritmiche dei Dealma (vedi Pearl Jam, Soundgarden, Red Hot Chili Peppers, Faith No More e Rage Against The Machine), che, di per se, può non significare granché, ma, per chi di quegli anni ha già ascoltato e riascoltato tutto, la loro musica può risultare, alla lunga, ripetitiva e monotona.

Tranne, probabilmente, quando dismettono il mantello grunge e suonano puliti, con poche distorsioni e tanto groove, eseguendo le cose più fresche del loro repertorio.

I ragazzi sono comunque bravi. Quasi bravissimi. Hanno imparato la lezione di quegli anni, ne hanno assimilato le attitudini e tentato di reinterpretarne le sonorità, senza però dargli quel pizzico di novità che chiedono, sottovoce, tutti coloro che ancora, di quelle musiche, si sentono orfani. Ma questo, ripeto, è solo una esternazione di chi ha già abbondantemente fatto il pieno degli album dei signori succitati e, se vuole riascoltarli, li mette su ed è a posto così. E questo non significa certo che i Dealmanon abbiano le carte in regola per stupirci ancora di più in futuro; gran bel sound, talento nella composizione, ottimo background culturale, uniti a una elevata capacità tecnica di tutti i componenti, nessuno escluso, non possono che rivelarsi un mix micidiale per aspettarsi grandi cose da loro. E il pubblico, che sotto il palco canta i loro pezzi e dimena la testa, credo non attenda altro.

 

 

A seguire occupa il palco quella che probabilmente, allo stato attuale, è la band alternative-rock più importante, per seguito, attività live e storia recente, dell’isola. I Sikitikis hanno di recente effettuato un brusco duplice cambiamento, sia nello loro line-up, che si è arricchita della chitarra, della quale erano riusciti egregiamente a fare a meno fino ad oggi, sia nel loro sound, virato, con l’ultimo album “Abbiamo perso”, verso sonorità decisamente più black, attingendo a piene mani, e in modo molto più palesato che nel passato, dal catalogo funk, rithm’n’blues e soul degli anni ‘60 e ‘70.

L’ora scarsa prevista dalla scaletta non gli consente di spaziare tanto nel loro, ormai decennale, repertorio e danno, giustamente, maggiore spazio ai pezzi dell’ultimo disco. La chitarra entra, talvolta in punta di piedi, talvolta a gamba tesa nei vecchi pezzi, ma, di sicuro, si integra benissimo con le nuove sonorità sperimentate dalla band.

Ecco allora che ai brani che ne hanno tenuto vivo l’interesse negli ultimi anni (come Voglio dormire con te, Tsunami, La mia piccola rivoluzione, Tiffany, Tu sei muta io sono sordo, Soli, Col cuore in gola), si affiancano i nuovi Non lasciarmi andare via, Abbiamo perso, In giro per club, La differenza, destinati comunque a diventare classici della band.

Il sound continua a strizzare l’occhio alle sonorità seventies, questa volta in modo più chiaro, senza però l’audacia dei primissimi album e le linee melodiche degli ultimi. La ricerca delle “nuove” sonorità ha portato la band, forse volutamente, a rinunciare agli azzardi che, in un modo o nell’altro, li hanno resi famosi e ne hanno fatto il gruppo che sono.

Se la chitarra aggiunge qualcosa in termini di possibilità compositive (anche se forse questo è il gruppo che, con autorevolezza, nel tempo ha dimostrato il contrario), toglie qualcosa in termini di atipicità, come se la sua mancanza li avesse “costretti”, fino a questo momento, a ricercare altrove i migliori arrangiamenti con gli strumenti che avevano. Ma queste restano comunque quisquiglie nel momento in cui una band riesce a raggiungere una suono compatto e una tale convinzione delle proprie capacità.

I Sikitikis sono oggettivamente un gruppo maturo, che continua ad avere voglia di osare e che ha dimostrato ancora una volta di saper scrivere canzoni e di avere un’idea precisa di cosa significhi dare al proprio pubblico un live con tutti i crismi. Diablo si conferma un ottimo frontman e un buon cantante, Jimi continua a sfornare ottimi giri e Lazy a dare un buon tiro ritmico ai pezzi, Zico li riempie e detta le linee melodiche, e il nuovo arrivato, Flavio Sechi, talvolta riempie semplicemente i vuoti dei vecchi pezzi, talvolta ne arricchisce i nuovi, che senza la chitarra sarebbero difficili da riproporre. Punto più alto del live (e anche la contraddizione di quanto detto finora) è, probabilmente, quella Umore Nero, che risale al 2005, nella quale le migliori sonorità mai raggiunte dai nostri, si impreziosiscono dei graffi della chitarra e delle capacità esecutive di una band musicalmente adulta e sempre capace di sorprendere.

 

Poi entrano gli headliner della serata.

Ho assistito per la prima volta a un concerto dei Marlene Kuntz nel lontano ’96, quando non ancora sedicenne ho avuto la fortuna di imbattermi in loro, catapultati a Tonara per la lungimiranza di un gruppo di ragazzi non abbastanza annoiati, mentre portavano in giro Catartica e Il Vile, fresco di stampa.

Fino a quel momento le mie orecchie erano state deliziate (o, se preferite, seviziate) quasi esclusivamente da sfuriate punk tardoadolescenziali o rimasugli, già stereotipati, dell’epopea grunge.

Quel giorno ha rappresentato per il sottoscritto un piccolo spartiacque verso nuovi orizzonti sonori e lo scontro con il wall of sound creato da quei quattro sbarbati piemontesi, con una foga e un rancore musicale mai visti, mi ha spalancato la testa, aprendo un vuoto che ancora, per fortuna, faccio fatica a colmare.

Quindi tutto quello che scriverò di seguito sarà, con buona probabilità, assolutamente privo di oggettività e raziocinio, come quando si racconta qualcosa molto più con la pancia che con la testa.

I Marlene salgono sul palco e senza proferire verbo, come da tradizione, e attaccano con M.K., proprio come avevano deciso di aprire più di vent’anni fa, Catartica, che da lì in avanti, riproporranno per intero senza soluzioni di continuità. Infilano uno dietro l’altro i pezzi forti dell’album, Festa Mesta, Nuotando nell’aria, Sonica, ed è subito tutto un brulicare di ricordi dei fasti che furono e di impulsi emotivi. Il pubblico, forse impreparato, accoglie, con tutto il calore e il coinvolgimento possibile, questa overture.

Ma, a dispetto delle aspettative, suonano con poco trasporto, come a togliersi subito dente e dolore, senza, forse comprensibilmente, la foga che ne aveva contraddistinto gli esordi. Vuoi forse perché erano i primi pezzi che eseguivano. Vuoi perché, almeno per alcuni di essi, con il passare del tempo, hanno amato sempre meno riproporli dal vivo. O vuoi, più semplicemente, perché quello che fai quando hai poco più di vent’anni difficilmente riesci a riproporlo quando hai superato i quaranta. E questo è tutto nell’ordine delle cose. I Marlene seguono però la scaletta di Catartica in crescendo, acquisendo, almeno in apparenza, sicurezza (come se ne avessero bisogno!) e dimostrando di essere una grande rock band, proprio nel passaggio ai pezzi dell’album che maggiormente si sposano con le attuali sonorità del gruppo.

Arrivano così Lieve, Fuoco su di te, Gioia (che mi do) e la meravigliosa Mala Mela, uno degli apici sia del disco sia dell’esibizione al Set To Sun. Catartica si conclude con 1°, 2°, 3°, Godano apre finalmente bocca, ringrazia con la sua consueta gentilezza e si congeda dal pubblico, che, come da copione, non gradisce e li richiama a gran voce.

Dopo qualche minuto risalgono sul palco. Godano dice che quella è stata una celebrazione di Catartica e che di lì a poco avrebbero eseguito un po’ di pezzi più recenti. Una celebrazione che sapeva un po’ di compleanno e un po’ di elogio funebre. Ma di quelli belli, di una persona amata da tutti e dove tutti sono tristi ma con il sorriso sulle labbra, dove non si piange né si rimpiange niente. Suonano per un’altra buona mezzora, riproponendo brani degli ultimi album. Ad eccezione di una canzone tratta da Il Vile, e qualche altra cosa già ascoltata di sfuggita, devo dire che i pezzi suonati dai Marlene mi erano quasi totalmente sconosciuti. Ma è stata senza alcun dubbio la mezzora migliore della loro esibizione, e del festival tutto.

Finalmente sembravano a loro agio con la musica proposta, con loro stessi e con il pubblico. Tutto veniva fuori in maniera più fluida e naturale, e, sia il suono sia la loro presenza scenica, ne hanno risentito, eccome. In quella mezzora hanno dimostrato di essere ancora una delle migliori Rock Band del panorama musicale alternativo italiano. E l’iniziale maiuscola non è lì a caso. Ed è per questo motivo, nonostante abbia smesso di ascoltare i loro album dall’uscita di Senza Peso, che non perdo occasione in questi anni di andare a sentirli.

Quando un gruppo è in grado di tenere il palco in quel modo, di migliorare le proprie esecuzioni nel tempo e di mantenere alto il livello della proposta musicale, mai vecchia, banale o uguale a se stessa, allora è bene sempre andarli a vedere. Sono occasioni da non lasciarsi sfuggire. Quindi date retta a quel vostro amico “espertone” di musica (perché tutti ne abbiamo almeno uno), quando vuole trascinarvi a sentire un gruppo dell’entroterra gallese sconosciuto ai più. C’è sempre il rischio che il concerto vi cambi uno scampolo di vita.

 

Simone La Croce

 

(Photo credits Michelangelo Maugeri)